Un poeta può morire mille volte e mille volte rubare ciò che nelle sue righe è diventata nota
Nei giorni scorsi la poetessa Ida Giulia La Rosa è ritornata nella Casa del Padre. Con lei scompare una importante “presenza” della poesia siciliana. Lei ha sempre amato scrivere poesie, fin da bambina. La prima la compose a soli 12 anni, per sua madre. In occasione del compleanno, le sue sorelle, numerose (ben dieci), le avevano fatto dei regali: chi un paio di calze di nylon, chi un rossetto. Lei, senza soldi per un dono, decise di scrivere una poesia, che nascose sotto il piatto, sperando di sorprenderla. Quando sua madre la trovò, commentò ironicamente: “Vediamo che ha scritto la scema!”. Ma, dopo averla letta, non la apprezzò. Quella reazione la ferì profondamente, tanto da farle abbandonare la scrittura per molti anni.
Con il tempo, però, la vita iniziò a presentarle le sue difficoltà, e tutto il dolore e le emozioni che non riusciva a esprimere a nessuno finirono per travolgerla. Fu allora che riprese a scrivere, questa volta per sé stessa, confidando i suoi sentimenti a un foglio bianco. Scrisse ancora di più dopo i 30 anni, quando il suo matrimonio si concluse con un divorzio.
All’epoca, divorziare era una conquista difficile, frutto di battaglie sociali a cui anche lei aveva partecipato. Era scesa in piazza con striscioni e proteste, sfidando il disprezzo di molti uomini. I loro sguardi giudicanti non le impedirono di lottare per un diritto che riteneva fondamentale.
In quegli anni, le donne non erano considerate persone indipendenti, ma proprietà, vincolate prima all’autorità del padre e poi a quella del marito. Lei, però, trovò il coraggio di ribellarsi. Decise di lavorare, anche se suo marito disapprovava con convinzioni antiquate: “Solo le donne di malaffare lavorano”, diceva. La sua determinazione nasceva dall’amore per i suoi figli, che non voleva veder crescere nella miseria.
La sua infanzia era stata segnata dalla violenza: un padre brutale e una madre che mostrava attenzione solo per i figli maschi. Anche il matrimonio si era rivelato un fallimento: suo marito non lavorava, e i bambini indossavano scarpe rotte. Schiacciata dalla disperazione, tentò persino di togliersi la vita, arrivando a ricevere l’estrema unzione.
Ma sopravvisse, e quando si risvegliò dal coma, fu colpita da ciò che vide intorno a sé. Le infermiere che si occupavano di lei lavoravano con energia, cantavano mentre pulivano, ed erano donne piene di vitalità. In quel momento, capì che voleva diventare come loro.
Uscita dall’ospedale, si rivolse alla suora superiore del quartiere, confidandole il suo desiderio di diventare infermiera. La suora le disse semplicemente di pregare, e lei pregò con devozione. Dopo molte insistenze e sacrifici, riuscì a vincere un concorso come infermiera ausiliaria. Non si fermò lì: frequentò un corso per diventare infermiera professionale, realizzando il suo sogno.
Finalmente, con il suo stipendio, poteva mantenere i figli e garantire loro una vita migliore. A quel punto, trovò il coraggio di chiedere al marito di andarsene. Continuò a lavorare con dedizione, accettando ogni turno extra e ogni festività, per mettere da parte qualche risparmio.
Nonostante il divorzio fosse giudicato male dalla società del tempo, lei non si lasciò abbattere. Lavorava duramente, trovava conforto nella preghiera, e la sua vita iniziò a rifiorire. Alla fine, riuscì a costruirsi una nuova esistenza, libera e dignitosa, per sé stessa e per i suoi figli.