Il vaso di Pandora: Trionfali note lacerarono l’immobilità del silenzio

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La sofferenza: fedele compagna del genio musicale di Beethoven in una prosa Edizioni Akkuaria

Immaginate di essere privati dell’organo sensoriale preposto all’espressione di ciò che vi è di più intimo in voi; supponete, per un solo istante, di ridestarvi in una melmosa oscurità di suoni, in un arido deserto, privi di coordinate, smarriti, nella totale assenza di rumori. Identificatevi in un uomo che ha donato pienamente la propria vita a una passione, edificando per lei e intorno a lei interi mondi e universi, ed è stato da essa tradito e abbandonato, in preda a un logorante e perverso dolore. Chiedetevi, in questo preciso momento, quale tormento provocherebbe in voi una tale sottrazione! Sol Sol Sol Mi (Edizioni Akkuaria, pp. 86, € 12,00) altro non è che l’esperienza di un incontro inatteso di cui Vera Ambra, l’autrice, si fa tramite e testimone.

La vicenda presente nel volume si sviluppa interamente in forma colloquiale; attraverso un continuo scambio di emozioni e sensazioni prende forma e si materializza l’angoscia del pianista e compositore Ludwig van Beethoven – che non viene mai menzionato esplicitamente – schiacciato dall’insostenibile peso della progressiva perdita dell’udito che lo esilia in una condizione pensata del suono e sprovvista della componente sensoriale: «Più è stato grande l’amore per le cose che più ho amato e più le cose che ho amato mi hanno tradito». Il musicista partecipa a quest’esperienza e, attraverso un accorato e costante dialogo con la scrittrice e altre figure significative della propria vita, rivela, sin da subito, il proprio sentimento di inadeguatezza. Vera Ambra ci avvisa: «Nel “mio delirio creativo” (così l’ho definito) ebbi modo di provare, nel mio animo, il tormento che segnò la svolta decisiva di un uomo, destinato a diventare un “Titano”. Un uomo, allora, vittima di una terribile e incurabile sventura». È come se uno squarcio creatosi nel continuum spazio-temporale avesse generato un legame diretto tra l’anima di colei che scrive e quella del pianista, nel preciso istante in cui quest’ultimo medita il suicidio come unica via di fuga dalla sorte avversa che gli è toccata.

Una prosa molto intima e personale che richiede al lettore un importante impegno empatico e una grande capacità di immedesimazione, per esperire dentro di se il dolore e liberarsene successivamente in una luminosa catarsi. Il Beethoven che riscopriamo tra queste pagine invoca le sorelle Parche, abili tessitrici del destino degli uomini, affinché queste lo sollevino dall’illusione e dalla sofferenza, dalle “menzogne dell’orecchio”. «Per chi – come me – non ha più orecchie per ascoltare, è indifferente morire o mettere la testa in un sacco. Tanto non mi accorgo di ciò che accade intorno». Per questo motivo, continua «Vorrei mescolarmi tra i miei pentagrammi e con loro sparire nel nulla anziché restare abbracciato con la paura».

L’avanzare della sordità porta il compositore a ritrarsi sempre più dagli ambienti sociali; il suo atteggiamento schivo diviene il diretto responsabile delle voci che si diffondono sulla sua presunta misantropia. A questo proposito, in una lettera redatta nell’ottobre del 1802 e indirizzata ai fratelli, passata alla cronaca come Testamento di Heiligestadt, Beethoven si rammarica della sua triste fama: «O voi uomini che mi credete ostile, scontroso, misantropo o che mi fate passare per tale, come siete ingiusti con me! Non sapete la causa segreta di ciò che è soltanto un’apparenza [...]. Di anno in anno, deluso dalla speranza di un miglioramento [...] ho dovuto isolarmi presto e vivere solitario, lontano dal mondo [...]. Se leggete questo un giorno, allora pensate che non siete stati giusti con me, e che l’infelice si consola trovando qualcuno che gli somiglia e che, nonostante tutti gli ostacoli della natura, ha fatto di tutto per essere ammesso nel novero degli artisti e degli uomini di valore».

Il pianista si interroga su quale sia lo scopo del suo perseverare in una condizione di privazione che provoca in lui un evidente disagio: «Una ragione sola m’è stata sempre cara: elevarmi alla perfezione. Ma ha fatto di me una radice che nel buio profondo trascorre l’esistenza senza mai guadagnarsi il verde». Una radice salda nel terreno, indispensabile allo sviluppo del tronco, dei rami, del fogliame, che si sacrifica nel suo contorto insinuarsi nelle profondità del suolo per consentire il trionfo della bellezza e della maestosità; queste ultime si ergono, vigorose, al di sopra dello spesso strato che separa il greve abisso dalla leggerezza dell’aria.

Nonostante egli abbia a lungo vagheggiato l’ipotesi del suicidio, vi è un momento della sua vicenda umana in cui approda alla decisione di osteggiare, con tutte le forze, la sventura e di convogliare e trasformare in musica maestosa il sentimento di angoscia. Il titolo del volume richiama il famoso tema portante della Sinfonia n. 5, o Quinta Sinfonia, scritta dal compositore con l’intento di affermare  la superiorità della libera volontà umana rispetto al determinismo del fato, nell’atavica contesa tra il libero arbitrio e il cieco destino.

Beethoven si spegne all’età di 56 anni, nel marzo del 1827. Recenti scoperte identificano la probabile causa del decesso in un’intossicazione da piombo provocata dalla consuetudine di sorseggiare il vino da un calice di cristallo di piombo e di mescolare a questo, per insaporirlo, un sale altrettanto ricco della stessa sostanza. «Tuttavia puoi soltanto aspettare per giudicare se il veleno, dal fedele bicchiere, nel palato per me scelga: il vivere o il mentire!». L’affluenza ai suoi funerali fu enorme; ironia della sorte, quand’era ancora in vita e desideroso di conferme, il mondo si era dimenticato di lui! «Più non si curano – loro – delle mie miserie, ma delle mie vecchie glorie, dei miei trofei e non dell’anima che in questo vecchio cuore canta ancora sonnolento». «La gente vive tutta la loro vita tra grovigli di compiacenze, di abitudini e poi spende la moneta del rispetto nel plauso degli altri» risponde il padre a quel figlio che sempre cercò di trasformare in un bambino prodigio, alla stregua del giovane Mozart.

Franz Grillparzer, chiamato a pronunciarne l’orazione funebre, disse che «[…] egli ovunque è passato, tutto ha sentito. Chi verrà dopo di lui, dovrà ricominciare, perché questo precursore ha condotto l’opera sua fino agli estremi confini dell’arte». E il principe russo Boris Galitzin, in una missiva inviata allo stesso Beethoven, espresse la convinzione che: «Il vostro genio ha superato i secoli e non vi sono forse uditori abbastanza illuminati per gustare tutta la bellezza di questa musica; ma saranno i posteri che renderanno omaggio e benediranno la vostra memoria molto più di quanto possano fare i contemporanei». Un uomo oltre, un musicista oltre, un incompreso dagli uomini del suo secolo, in particolar modo nell’ultimo periodo della sua produzione artistica. Condizione comune, questa, ad altri uomini d’ingegno che come lui anticiparono i tempi e non poterono, per questo, ricevere una piena comprensione.

«Io sono Bacco che spilla vino vigoroso per l’umanità e la rende spiritualmente ubriaca», interprete di Dio, di una morale superiore veicolata dalla sua opera artistica, nella convinzione che una legge morale, fatta e costruita su valori ideali, fosse presente nella coscienza individuale di ciascun individuo. Noi posteri sappiamo che Ludwig van Beethoven ha ottenuto, infine, la sua redenzione; le sue note tremano e fanno tremare, ancora a distanza di secoli, gli animi degli uomini che da esse si lasciano attraversare e colmare.

Maria Gerace
(www.excursus.org, anno IV, n. 32, marzo 2012)

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