La stagione lirica al Teatro Massimo di Catania del 2024, si inaugura con Turandot di Giacomo Puccini. Le repliche si protrarranno fino al 20 gennaio.
L’allestimento di pregio di Alfonso Signorini ci restituisce un’opera mondata da tutti gli intellettualismi da postribolo effettuati da pseudo registi dell’ultima generazione. È una regia che stimola l’immaginazione dello spettatore conducendolo per mano ‘A Pekino al tempo delle favole’, come recita la locandina.
Se il finale con la musica di Luciano Berio ha disturbato qualche spettatore è solo perché ormai siamo tutti abituati al finale di Alfano, e si sa, i mutamenti improvvisi non sono molto graditi. A Signorini va il merito di aver attutito quest’urto, offrendo di questa partitura, una regia alquanto equilibrata e abbastanza connessa alla musica. Efficace, ad esempio, è stata la presenza del fantasma dell’Ava, durante l’interludio musicale, che disgela la Principessa, e la fa avvicinare al corpo di Liù morta mostrando una certa pietà.
Un cast di tutto rispetto.
Il principe ignoto è impersonato dal tenore Angelo Villari che ci ha regalato una brillante interpretazione del personaggio.
La giovane schiava Liù è stata interpretata deliziosamente dal soprano Elisa balbo, che con i suoi delicati filati ha saputo conferire al personaggio quel pathos che tanto commuove l’ascoltatore.
Gran presenza scenica è stata dimostrata da Daniela Schillaci, ormai veterana nel nostro teatro.
Bravi e abbastanza affiatati sono stati i tre ministri Ping, nella persona di Vincenzo Taormina; Pong, nella persona di Saverio Pugliese; Pang, nella persona di Blagoj Nakoskj.
Una bella presenza scenica è stata rivelata dal basso George Andgulazed nel ruolo di Timur. Una possente voce che conferisce al personaggio la dignità di sovrano, anche se ormai decaduto.
Un mandarino è stato in maniera egregia interpretato da Tiziano Rosati.
Infine l’imperatore Altoum è stato ben interpretato dal tenore Mario Bolognesi.
L’orchestra è stata diretta dal maestro Eckerard Stier in modo abbastanza conforme all’azione scenica, sebbene talvolta coprisse il cantato.
Il coro, come sempre, è stato ben diretto dal maestro Luigi Petruzzello.
Grazioso il coro di voci bianche diretto da Daniela Giambra.
Le scene di Carla Tolomeo, riprese da Leila Fteita, erano abbastanza coerenti all’intreccio narrativo, come pure i costumi di Fausto Puglisi ripresi anch’essi da Leila Fteita.
Una rappresentazione di ottimo livello, che ci piacerebbe vedere in Rai, ma questa è un’altra storia.
Puccini ha lavorato a quest’opera fino alla morte, avvenuta in una clinica di Bruxelles dove è stato operato di cancro alla gola. È stata una lotta contro il tempo. Sapeva che stava per morire, e l’ispirazione per concluderla non arrivava. Voleva un finale magico, con un gran duetto. Egli stesso scriveva così ad Adami:
“I due esseri quasi fuori del mondo entrano fra gli esseri umani per l’amore e questo amore alla fine deve invadere tutti sulla scena in una perorazione orchestrale”
Questo gran finale purtroppo non arriva come il Maestro lo sente, e il tumore avanza.
Morirà lasciando l’opera incompiuta.
Toscanini affidò a Franco Alfano il compito ingrato di concludere l’opera. Il musicista accettò il lavoro di malavoglia, e la prima stesura non soddisfò Toscanini: c’era molto Alfano e poco Puccini. Il finale fu rifatto, e i risultati furono migliori: un finale più aderente agli appunti lasciati dallo stesso Puccini.
Anche Luciano Berio si è cimentato nel finale dell’opera, ed ha il pregio di essere più aderente a quel finale magico-intimistico a cui Puccini anelava. Prevale un sinfonismo che si può notare in un interludio di ampio respiro, dopo il “Principessa di gelo”.
Alessandro Scardaci
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