“Secoli di questa parola, uomo uomo uomo, e ora non ha più sapore.”
Com’è dolce il conforto di Zavattini, padrone della sintesi, reattivo alla misura sensoriale del tempo ma, soprattutto, portatore del vero impronunciabile nascosto fra le pieghe di una storia ribelle, scritta da un clandestino riequilibratore dei termini e delle aspettative sui futuri che ci attendono.
Randagio Clandestino cura la regia narrativa di Menchenn Ulla raccontandoci una storia ordinaria, sul nostro universo, attraverso una duplice tecnica usata in teatro: la sospensione sia nei tempi narrativi che nei giudizi etici.
Aggiunge, inoltre, un atto di animazione culturale assolutamente eccezionale: dei personaggi fortemente normali con vite e attese uguali alle nostre, presi più dal sopravvivere quotidiano che dalle nostre azioni volte al futuro.
Randagio Clandestino, pseudonimo di Mario Bonica, attore e regista di straordinarie favole sceniche per l’infanzia, identitario ad un Fedro dell’epoca moderna, tesse quasi la sua storia all’uncinetto, facendo riemergere il suo lavoro di animazione scenica attraverso una regia delle sovrastrutture itineranti nel racconto, coniugandole alla tecnologia del sogno e alle proiezioni del Possibile quale biglietto d’ingresso del Probabile.
Cesella una storia avvincente, briosa – da non raccontare come nel sottotesto – ma con un piano sequenza che allarga sempre più il tema dell’ecologia, con un piede nella fantasia e l’altro nel mistero.
In Menchenn Ulla la vita risuona di voci sentite, personaggi popolari che si mettono alla prova con scherzi e contromisure e, soprattutto, la purezza emerge come neve al sole, la dolce Franchina che intuisce una verità cara alla narrazione «ogni animale ha un suo modo di guardarti negli occhi, che ogni animale dev’essere guardato in maniera diversa» il fulcro del testo si fa finalmente strada.
Come nelle Città Invisibili di Italo Calvino l’ambientazione è fantastica ma assolutamente collocata nel tempo-spazio, in ambienti riconoscibili, con modalità di vita che fanno parte dell’ordinarietà, e i personaggi siamo tutti Noi, insieme, chiaramente subordinati alle suppellettili che ordinariamente adoperiamo.
Cosa c’è di nuovo?
Gli atti di coscienza!
Si materializzano usando le forme e le metodiche aderenti al nostro tempo: troviamo la fantasia che diventa l’anima arrabbiata che non sa più mentire, può farsi però guida e punto da cui poter partire.
La narrazione silenziosa che leggerete fra poco, emerge dal non detto, dalle parole veloci che passano nel nostro vissuto senza trovare il mezzo o la misura per divenire un autentico concetto, il sembiante interno che tarda a maturare.
Eppure, in Menchenn Ulla le assonanze fonetiche si sostituiscono alla razionalità plastica e i segni s’impongono su un’ecologia calma che lascia al gesto il suo vuoto non colmato, l’eretico equilibro captato, sottomesso e distrutto senza ragione.
Nell’uomo senza sapore di Zavattini, precedentemente citato, si identifica la ragione recisa che va risvegliata, quasi come una lotta di classe adoperata dalla fantasia per porre in asse le devastanti distruzioni del genio sul naturale.
Nella leggerezza di Menchenn Ulla c’è una data «17 luglio dentro il computer di Concetto sono andata a cascarci per puro caso! Ma sì. È stato un incidente accidentale scopereccio di volo dovuto alla mia ben nota imbranataggine di fata fallita» ancora una volta si va in scena con le parole camuffate, distese in compendi fonetici che ampiamente aprono al respiro; Menchenn Ulla che raccoglie il meglio del sogno, l’infinita disillusione della modernità, l’angoscia tenebrosa di una sorella che para i colpi prima che arrivino.
Un’espressione lenta come un soffio ma che porta dietro barlumi interi di speranza, ettolitri di vita e il movimento complesso della salificazione dello sbaglio.
Con parole in fondo alla gola, l’allegria filante della narrazione lascia spazio a profonde riflessioni che ho ritrovato, similarmente, in un verso di Basho: «Vieni, vedi i fiori veri di questo mondo doloroso».
Grazia Maria Scardaci