Per un (ri) ascolto di “LockDowning Street”

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Testimoni da nulla sono per gli uomini gli occhi e le orecchie, se hanno l’anima barbara” Eraclito, frammento 107.
Si attaglia tale pensiero di un tempo senza tempo, all’ascolto del disco (lo appelliamo così, all’antica) “LockDowning Street”, opera corale di diversi artisti ma escita dalla arte chitarristica di Davide Sciacca, con il supporto pianistico di Andrea Amici, anche uno degli autori dei brani.
Incisione densa di connessione tra l’antico e il postmoderno, spaziante nei meandri della musicalità con un coraggio artistico che solo pochi musicisti hanno. Infatti, per il percorso di inveterata follìa narrativo-musicale che la caratterizza, la raccolta dei 14 brani, sarebbe o da lodare o da distruggere. In medias res, scegliamo di indicarla spregiudicatamente all’ascoltatore del ventunesimo secolo, calato nel Nulla eterno dei frammenti visivi e sonori onde viviamo, perchè la serbi come una analisi del Se, idealmente citando Alfredo Adler.
Se infatti i primi cinque brani, da Boccherini a Bellini a Sagreras, il nostro Vincenzo evocato in una fantasia di Sonnambula come nel Pirata tra le note della classica chitarra di Alaimo, è un puro inno alla magica spora sensuale del secolo decimonono, il secolo dei baffi e degli amplessi che preparò le rivoluzioni e le guerre del ventesimo, ove tutta la sonorità del Romanticismo da camera vien fuori in un anelito sereno e pacato fino al Novecento, l’Oltre di Amici come la sua immagine debole più che il suono, hanno dell’angosciante e onirico, che sconfina nel pericoloso frammentarsi dei nostri giorni. Un perturbarsi delle menti (chi ha dato ordine ad esse, nella organicità dei brani?) che neanche il Preludio di Luciano M.Serra, del 1996, riesce a dipanare. La Sarabanda di Joe Schittino che apre il Ventunesimo secolo (2001) è senza alcun dubbio, la porta verso l’Abisso che solo alla fine, in una sola nota della chitarra di Sciacca, riesce a trovare una seppur provvisoria, sistemazione. Basterà ad orizzontarsi?
Più in fondo senza il termine della notte (oh Cèline amato, qual mai ombra fu per riscattarti…) v’ha l’intermezzo di Pennisi, totalmente disadattato al mondo; medesimamente le composizioni di Rosario Tomarchio, i cui mesi sono frànti dall’irrecuperabile bujo della tenebra senza ritorno. E’ una morte, lenta e inesorabile, oltre la dodecafonìa, dell’Essere che si fa drago e poi, forse, ritornerà fiore dal fango. Con una voce mezzosopranile rossiniana? Non è dato di conoscere il Segreto.
Le ultime pagine del disco, sono apparentemente la speranza ultima dèa, della Tarantella di Giuseppe Torrisi, che cerca di risalire la china. Ma, la lettura intensa e cupa delle pagine verghiane della “Storia di una Capinera” a cura di Amici, ridònano e ridòndano della falcata Suprema, incessantemente viva in un mondo di inerti fantàsimi. La bestiolina muore e forse vi è qualcosa di oltre. Forse. Ma cosa rimane?
Nel maggio 1940, mentre i potentissimi apparecchi della grande Germania si accanivano su Londra bombardandola senza pietà e le truppe inglesi si ritiravano a Dunkerque, tutto sembrò perduto. Ma da Downing Street un uomo pingue e dall’apparenza mollacchiosa e una Famiglia decisa, la cui discendenza ancora oggi come sangue reale impera nel Regno Unito, resistettero alle Forze Oscure (già combattute da un esperto che ben le conosceva, Ernesto Jùnger) e le sconfissero.
La Luce esiste. Anche nei momenti più bui e nell’ora più sola e più tàrda (Pascoli).  La nostra lettura di questa opera originalissima, è codesta: che l’ascoltatore assorba, ascolti, impari, taccia.  E con una frase simbolica del sommo Pitagora vaticiniamo fortuna alla raccolta: “Adora l’eco, quando spirano i venti”.
Francesco Giordano

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