Gli allevatori e la FAO cercano di far credere che gli allevamenti non siano poi così dannosi per l’ambiente.
È stato annunciato questo mese, luglio 2012, l’ultimo progetto della FAO per sostenere il consumo di carne: la creazione di una partnership con gli allevatori, chiamata “Livestock Partnership”, per “migliorare le prestazioni ambientali del settore zootecnico”, e fare da “guida” nelle valutazioni di impatto ambientale e loro conseguenti applicazioni.http://www.fao.org/news/story/en/item/150555/icode/
Dietro queste parole si nasconde in realtà il tentativo di difendere gli interessi economici dell’industria zootecnica. Infatti, essendo ormai noti a tutti i dati scientifici che individuano nel settore dell’allevamento uno dei maggiori (se non IL maggiore) responsabili dell’impatto ambientale in generale e dell’emissione di gas serra in particolare, la FAO intende difendere la zootecnia fornendo ai consumatori e alle istituzioni dei dati NON determinati da esperti di impatto ambientale super-partes, ma dalla Livestock Partenership, formata sostanzialmente da industrie zootecniche e da organismi che le rappresentano o sono ad esse vicine.
Tra i membri fondatori di questa partenership troviamo infatti: il Segretariato Internazionale della Carne, la Federazione Internazionale dei Prodotti Lattiero-caseari, la Commissione Internazionale sulla Uova, il Consiglio Internazionale sul Pollame, i governi di Francia, Irlanda, Paesi Bassi e Nuova Zelanda (quattro tra i maggiori produttori di carne) e, in un maldestro tentativo di far vedere che anche la parte “ambientalista” è rappresentata, troviamo anche il WWF, associazione che non ha mai preso il minimo impegno per far diminuire i consumi di carne, unico vero modo per ridurre l’impatto della produzione di cibo animale. Anzi, il vicepresidente del WWF, Jason Clay presiede la “tavola rotonda per il manzo sostenibile”, una contraddizione in termini.
Riportiamo a commento di questa notizia un articolo di Robert Goodland, per anni consulente della Banca Mondiale, che spiega come l’unica vera possibilità di far diminuire l’impatto ambientale degli allevamenti sia quella di diminuire il più possibile gli allevamenti stessi, e come l’unica speranza per contrastare in tempi brevi il riscaldamento globale sia di spostare la nostra alimentazione verso una dieta a base vegetale. E per far questo non servono i governi, non servono leggi, non servono infrastrutture, non serve aspettare anni: basta cambiare quello che mettiamo nel carrello della spesa, fin da subito.Riscaldamento globale e collusione tra l’industria zootenica e la FAO
Lo scorso anno è stato il più caldo mai registrato negli Stati Uniti, con temperature record in tutto il paese la settimana scorsa, che hanno provocato almeno 52 morti e causato problemi anche agli animali d’allevamento. In effetti, gli animali d’allevamento non solo subiscono danni dal riscaldamento globale, ma l’allevamento stesso causa circa il 18% dell’emissione globale di gas serra, secondo il reporti “La lunga ombra del bestiame”, emesso nel 2006 dagli specialisti in zootecnia della FAO (i quali di solito promuovo gli allevamenti stessi).
Al contrario, gli specialisti in questioni ambientali impiegati da altre due agenzie delle Nazioni Unite, la Banca Mondiale e l’International Finance Corporation, hanno sviluppato una valutazione, ampiamente citata, dalla quale appare che almeno il 51% dei gas serra causati dalle attività umane è attribuibile al bestiame. Io sono uno di questi specialisti.
Ci si potrebbe aspettare che la FAO lavori oggettivamente per determinare se la cifra reale sia più vicina al 18% o al 51%. Al contrario, Frank Mitloehner, noto per la sua affermazione che il 18% sia una stima troppo alta da utilizzare negli Stati Uniti, la scorsa settimana è stato nominato direttore di una nuova partnership tra l’industria della carne e la FAO, la Livestock Partnership.
I nuovi partner della FAO includono il Segretariato Internazionale della Carne e la Federazione Internazionale dei Prodotti Lattiero-caseari. Il loro obiettivo dichiarato è quello di “valutare le prestazioni ambientali del settore zootecnico” e “migliorare tali prestazioni”, partendo con un programma triennale per stabilire “metodi e linee guida”.
Eppure, secondo il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (IPCC) e l’ Agenzia Internazionale per l’Energia, entro cinque anni il livello di gas serra potrebbe aumentare a livelli catastrofici e irreversibili se non si fa nulla per cambiare le cose.
La nuova partnership assume che la produzione di carne nel mondo diventerà “più del doppio” dal 1999 al 2050. Ma l’International Food Policy Research Institute ha illustrato uno scenario in cui la produzione di carne diminuirà almeno fino al 2030. Alcune autorità sul tema dei cambiamenti climatici come Lord Nicholas Stern, autore dello Stern Review sull’economia del cambiamento climatico, e Rajendra Pachauri, presidente dell’IPCC, hanno raccomandato l’alimentazione vegetariane per invertire il corso dei cambiamenti climatici.
La nuova partnership della FAO non è proprio una sorpresa, dato che i suoi specialisti in zootecnia si sono impegnati in vari modi per invertire la percezione comune che il report “La lunga ombra del bestiame” consigliasse di diminuire il consumo di carne. Ad esempio, il suo autore principale e co-autore, ha scritto in seguito altri articoli per invitare a un aumento degli allevamenti intensivi, non a una diminuzione, e ha indicato che non si devono porre limiti al consumo si carne.
Eppure, “La lunga ombra del bestiame” può non essere approvato in modo uniforme da tutta la FAO, dato che la FAO ha invitato Jeff Anhang e me a presentare la nostra analisi prima al loro quartier generale a Roma e poi a Berlino.
Lo scopo fondamentale della FAO è di “promuovere il benessere comune” in un “forum neutrale”. Tuttavia, la nuova partnership della FAO include solo quattro paesi ricchi e nessun paese povero. L’ex direttore generale della International Livestock Research Institute (ILRI), che promuove normalmente la zootecnia, ha espresso preoccupazione per gli effetti degli allevamenti intensivi sulle popolazioni povere – dicendo che gli animali degli allevamenti intensivi vengono nutriti coi cereali “che invece potrebbero nutrire le persone”.
L’allevamento industriale è stato criticato anche da un co-autore di “La lunga ombra del bestiame”, Cornelius De Haan, quando ricopriva il ruolo di autore principale del report sul settore zootecnico della Banca Mondiale, nel 2001. Tale report fissava l’impatto negativo degli allevamenti a un livello inferiore rispetto al dossier “La lunga ombra del bestiame” – eppure la strategia della Banca Mondiale raccomanda che le istituzioni “evitino di finanziare sistemi dall’allevamento commerciali su larga scala basati sul consumo di cereali e la produzione industriale di latte, carne di maiale e pollame”.
Al contrario, l’obiettivo dichiarato di Frank Mitloehner, presidente della nuova partnership della FAO, è quello di promuovere l’allevamento intensivo.
Una nuovo rapporto dell’ILRI conclude che “il bestiame è di nuovo nell’agenda globale” e che un aumento della produttività deve provenire da sistemi “intensificati”. Un vide rivela la pressione sui ricercatori per ottenere il sostegno alle conclsuioni predeterminate dall’ILRI; nel video, il nuovo direttore generale afferma: “Come possiamo aumentare l’importanza della zootecnia? [...] Nel passato, non siamo stati abbastanza attenti alla questione dei consumi nelle aree urbane. [...] Una buona parte delle critiche negative alla zootecnia riguardano il suo contributo all’emissione di gas serra e la sua impronta ecologica molto alta – quindi dobbiamo sviluppare risposte più forti a queste sfide”.
Le evidenze mostrano che l’ILRI può temere l’accettazione pubblica della nostra valutazione, ampiamente citata, che dimostra che l’allevamento è responsabile di almeno il 51% delle emissioni di gas serra causate dall’uomo. L’ILRI era così preoccupato dell’accetazione di questo valore del 51% da sollevare la questione nel suo meeting annuale del 2010 prima, durante e dopo il meeting: ne è risultato che la percentuale di partecipanti che accettava tale risultato è aumentata dall’1,5% prima del meeting al 7,5% dopo.
Il report “La lunga ombra del bestiame” ha sottovalutato di molto la quantità di terreno usata per l’allevamento e la produzione di mangimi, stimandola a un 30% del totale delle terre emerse, mentre l’IRLI porta questa stima al 45%. Altre mancanze del dossier FAO possono essere dovute al fatto che i suoi autori sono specialisti in zootenica – mentre le buone pratiche internazionali per la valutazione dell’impatto ambientale indicano che i progetti che implicano impatti ambientali significativi (com’è appunto il caso dell’allevamento e coltivazione di mangimi) devono essere valutati da specialisti sull’impatto ambientale.
Il fattore chiave che spiega la differenza tra i due valori, 18% e 51%, sta nel fatto che il secondo tiene conto di come la crescita esponenziale nella produzone zootecnica (che ad oggi conta oltre 60 miliardi di animali allevati ogni anno), accompagnata dalla deforestazione su larga scala e dagli incendi delle foreste, abbia causato una drammatica diminuzione della capacità fotosintetica della Terra, assieme a un aumento sempre maggiore della volatilizzazione del carbonio del suolo.
L’agricoltura è un’attività che per sua natura avviene all’aria aperta, e questo la espone a un maggior rischio alle emeissioni di gas serra dovute all’allevamento, più di qualsiasi altro settore dell’industria. Quindi i leader dell’industria alimentare hanno un forte incentivo commerciale a ridurre queste emissioni.
Mentre la FAO e l’ILRI sostengono che milioni di poveri non hanno altra alternativa all’allevamento di animali per la propria sussistenza, decine di milioni di animali allevati da queste persone sono morti negli ultimi anni a causa di disastri climatici. Continuare ad allevare altri animali li metterebbe a rischio di fare la stessa fine.
Invece, sostituire almeno un quarto dei prodotti animali consumati oggi con alternative migliori a base vegetale ridurebbe le emissioni e consentirebbe alle foreste di rinnovarsi su vaste aree, ed esse potrebbero assorbire gli eccessi di carbonio in atmosfera e ridurli a un livello di sicurezza. Questo può essere il solo modo pragmatico per fermare i cambiamenti climatici nel poco tempo che rimane, vale a dire nei prossimi cinque anni.
Per modificare le infrastrutture per la produzione di energia, passando ad energie rinnovabili, servirebbero almeno 20 anni e 18 mila miliardi di dollari.
Nutrirsi di prodotti vegetali anziché animali, invece, non richiede investimenti né tempo. I consumatori possono farlo già oggi.
Fonte:
Robert Goodland, Record heat spiked by collusion between the meat industry and FAO, 11 luglio 2012
http://www.chompingclimatechange.org/1/post/2012/07/record-heat-spiked-by-collusion-between-the-meat-industry-and-fao.html
Si ringraziano Jeff Anhang e Robert Goodland per la gentile concessione di tradurre e ripubblicare questo articolo.