La nostalgia e l’incompiutezza evocano il tormentato Io lirico del poeta; da Edizioni Akkuaria
È evocazione allo stato più puro, onda che si propaga dall’inquietudine oltre il dato, oltre l’evento, al quale guarda anzi con lontananza, da un binario parallelo che correrà sempre a fianco ad esso: «Quel che ho / nel sogno l’ho posseduto; / e quel che abitai/ mai lo colsi alla presenza mia».
Poesia densa e corposa quella di Massimo Triolo, aretino, che si è cimentato nella raccolta In ritardo sulla scena (Edizioni Akkuaria, pp. 102, € 12,00), facendo della tematica ipertrofica e dell’evocazione suggestiva il suo stendardo: «Tu che m’insegni la strada, / ricorda l’algebra dei nostri occhi fondi, / che ci descrisse e mai nessuno seppe, / l’aroma blasé che ci portiamo appresso nel nostro “lungovita” amaro».
A ciò, che costituisce il cuore pulsante della struttura, della sua letteratura, fa da cornice un impianto linguistico particolarmente curato, che si nutre di una tessitura variegata di termini aulici e toni esclamativi, miranti a creare la particolare atmosfera ovattata entro cui è racchiuso il mondo sognato/ sperato/ rimpianto dello scrittore.
La sua poesia non funge così da interpretazione della realtà, piuttosto essa diviene il tramite, lo scalino per mezzo del quale raggiungere il suo doppio, ovvero la realtà emotiva e spirituale del poeta, che scopriamo possedere una caleidoscopio di emozioni tra le più varie. Arde incessantemente il fuoco della passione in confronto al quale «magro ha da essere ogni compenso, / che viene gettato a un’anima inquieta».
Le note più accorate di ricerca intimistica si notano in Come sono ai tuoi occhi, una lirica tutta cuore, in cui il poeta abbandona ogni tentativo di profetica vanità per esplorare i percorsi degli interrogativi più intimi e sinceri sul proprio io, visto attraverso la lente d’ingrandimento dell’altro; le impressioni che scaturisce nell’immaginario del suo presunto interlocutore diventano anzi il fulcro vitale della ricerca dell’anima tormentata dell’io lirico: «Dura la sera oltre ogni dire, / senza i tuoi occhi che mi scavano dentro, / senza i miei occhi sui tuoi occhi, / senza sapere, / come mi vedono i tuoi occhi».
Il poeta ha «rinunciato a praticare le veglie/ rimboccando le coperte a sogni acerbi, / quegli stessi che mai poterono compiersi» nel corso della sua vita, tuttavia non il rimpianto deve bastare a sbloccare la tensione verso la vita, se il poeta anela a salvare sempre «un’oncia di sorriso/ al centro della ragione del cammino». Questa è l’anima di Tu che m’insegni la strada, una delle pietre preziose della raccolta in cui l’invocazione commossa a una presunta guida spirituale si unisce al dolce ricordo di progetti mai avvenuti, ma vissuti nell’intensità del sogno.
Parola d’ordine di questa raccolta in cui tutto sembra svolgersi all’interno di una cornice onirica è indeterminatezza. La leggerezza e la contemporanea potenza di una poesia in ritardo sulla scena della sfera emozionale, quindi consapevolmente malinconica e nostalgica, che non rinuncia anche in punta di piedi a regalare scorci di grande espressività: «Frugato abbiamo le vesti ad angeli randagi, / adagiando sospiri sulle loro labbra di miele / noi disperati cartografi di stelle / per non dover che onorare l’ombra/ del nostro segreto cuore di gemma, / loro assenti nei nostri dedali di specchi».
È pensiero combattivo, dove il “ritardo” sulla scena emozionale viene quasi vendicato col rifugio nell’allegoria più spinta, che sfocia nell’ermetismo. Ed ecco che, per sempre, la non riuscita dell’azione viene sublimata nell’eternità di un pensiero codificato, la cui decifrazione non risulta accessibile se non ripercorrendo la stessa straordinaria via dell’irraggiungibile, dell’universalità e ahimè, giungendo allo stesso traguardo del non senso, dell’ambiguità, del segreto, del melanconico, che costituisce il cuore dell’opera.
Ma perché concentrare la seconda metà del testo tutta su un singolare medley dei Pink Floyd, in nome della storica band? L’omaggio in versi è totalmente interiorizzato e rivisitato sulla propria esperienza di vita, in una prospettiva che dilata il tempo del brano, arricchendolo di una dimensione familiare, scena per scena nelle dodici parti di cui si compone. L’originale, che è una denuncia contro le delusioni del mondo, le istituzioni, i tradimenti che costringono gli uomini a costruirsi un muro intorno, è filtrato dalla lente di ingrandimento della vita ed esperienza di Triolo, che immancabilmente si intrattiene in ricordi d’infanzia che abbracciano l’ innocente consapevolezza della presenza perpetua e continua della madre («Ma ti inculcherà le sue paure, / i suoi sogni e le sue migliori aspettative, / saranno l’incubo di ogni tua notte, / ma mamma sarà sempre al tuo capezzale[...]»). E ancora: «Ma noi non vogliamo una coscienza felice, / bensì una volontà e un Eros, liberati e concordi, / che un Tempio Sacro siano, di colori e simboli, / suoni e odori, ed echi familiari [...]».
Ed è entrando nel cuore di questo coro rivoluzionario che ritroviamo la consapevolezza di un sogno che si infrange e di uno sguardo all’indietro che mostra un bambino cresciuto, in mezzo a «una placida risacca di confuse sensazioni». È voce ormai fuori dal guscio delle idee patrie con una propria identità che alza il volume al grido di ribellione di una vita “mesmerizzata”, che vuole puntare al risveglio dalle generazioni precedenti pervase dal vizio necessario di scordare dopo aver imparato, vittime di un qualunquismo che si riversa sulle generazioni successive, per poi consolarsi nell’assoluzione.
Maria De Gaetano
(www.excursus.org, anno IV, n. 38, settembre 2012)