Pino Amatiello (Sciacca nel 1938 – Roma 2007) è stato poeta, saggista, scrittore, esegeta, editore, giornalista
Mario Mazzantini, critico letterario, scriveva: «Amatiello, da cittadino di una grande città, è diventato da poco una parte topograficamente impor-tante della medesima.»
Pino Amatiello, trasferitosi a Roma dal 1961, diven-ta punto di riferimento dell’ambiente letterario a Roma, mai dimenticando d’aver cura dell’animus siciliano, conservando il colore caldo delle tradizioni e il suono materno del dialetto, diventando portavoce del raccon-to ininterrotto con la propria terra, abilmente tradotto nel romanzo allegorico Dragunara – opera ridotta per il teatro e rappresentata – ed esaltato nei sapori in due libri di gastroenologia Siciliainbocca 1 e Siciliainboc-ca 2. Cantore dell’amore e della donna in cinque libri di poesia (70 Oggi; Spiccioli e centoni; Poesie d’amore; L’altra – Diario di una malattia; Se appena mi sorridi).
Giornalista, attento e critico, bravo mecenate nella scoperta di giovani collaboratori. Sotto il segno della libertà d’espressione, nel 1974 era fondatore e Presi-dente del Centro Italiano Arte e Cultura, nonché Rettore dell’Ateneo di poesia e di storia delle poetiche europee. Nel 1984 fondava e dirigeva il Periodico europeo Il Giornale dei Poeti – il cui Ventennale di Fondazione è stato celebrato nella Bighamton University di New York.
«Così il mio pensiero cominciò pian piano ad elevarsi, a trovare rifugi segreti, sfuggendo a sentinelle perenni, a consuetudini consolidate; prima fra tutte la realtà.» (Pino Amatiello, L’ossessione di Claudio, Prefazione, 2005)
Pino Amatiello è fra gli eletti che ha scoperto la propria realtà tra le vie dell’arte.
Dominga Carrubba
INTERVISTA A PINO AMATIELLO
DI GAETANO ALLOTTA
– Ho letto molti anni fa il suo romanzo Dragunara e ne sono rimasto affascinato. L’ho riletto recentemente e ne ho avuto una impressione ancora più favorevole. Come vive ora lontano dalla Sicilia, che l’ha ispirato?
Vivo con un’inguaribile nostalgia, ma anche, se decido di ritornare in Sicilia, con l’angoscia dell’esule di non essere riconosciuto dalla madre o dal padre. Lei stesso mi ha riferito che, cercando di avere il mio recapito romano, le hanno detto che ero morto. (sic!).
Per ciò che riguarda Dragunara, il mio romanzo d’esordio, le confesso che me lo sono trascinato dietro fino al compimento dei quarant’anni. L’ho riscritto, infatti, ben sedici volte, aggiornandolo continuamente con gli eventi che si andavano verificando, dalla seconda guerra mondiale alla frana di Agrigento.
All’età di sette anni una zingara mi aveva predetto, leggendomi a forza la mano che continuamente ritraevo: “Lu primu libbiru a quarant’anni” e aveva avuto ragione.
Ho tentato, invano, di farlo pubblicare sia dai grandi editori che dai piccoli, ma non c’è stato verso.
Appena ho compiuto quarant’anni, l’editore Mar-cello Spada, al quale avevo presentato il dattiloscritto di 2.200 pagine, dopo averlo letto e fatto esaminare dal cognato critico letterario, mi disse che, se fossi stato capace di ridurre il numero delle pagine a un decimo, ne sarebbe venuto fuori un capolavoro. A questo punto, rilessi il romanzo e mi resi conto che c’era troppo Pirandello, il mio primo amore.
Diedi quindi inizio a un lavoro di prima scrematura, eliminando i particolari che connotavano i personaggi, poi decisi di non descriverne alcuno: volevo tentare di descriverli a seconda di come parlavano. Noi, infatti siamo come parliamo; siamo ciò e come lo diciamo, da istruiti e da analfabeti, con il linguaggio del pescatore, del contadino, del muratore, del mafiosetto ignorante.
Così le pagine diventarono circa seicento. Ma non bastava, dovevo eliminare anche certe descrizioni sulle quali ritenevo di essermi dilungato, convinto che se le parole necessitano di sintesi questa sintesi io la esplicitavo con… troppe parole.
– La caratteristica della sua opera è quella dell’uso, ritengo per la prima volta, di frasi e termini siciliani: com’è giunto a questa forma di narrativa?
Poiché il romanzo era ambientato in Sicilia e, particolarmente a Sciacca, dove sono nato e, inoltre ad Agrigento, a Ribera ,a Santa Margherita Belice, e a Roma, mi chiedevo se qualche scrittore siciliano avesse mai mescolato la lingua (cosiddetta italiana) con la lingua siciliana. La risposta di molti amici, tra cui Maria Martoglio, figlia di Nino; la prof.ssa Sara Zappulla Muscarà; il prof. Santi Correnti e altri, fu negativa; anzi mi fu consigliato di pubblicare il romanzo al più presto, prima che fosse editato La Cocotte, libro postumo del De Roberto (1980).
Il mio romanzo fu edito nel 1978; nel 1980 vinse il Premio Narrativa Provincia di Agrigento (acquisto di 5.000 copie destinate alle Biblioteche scolastiche italiane.
Dragunara si distingueva anche dall’Orcinus Horca del D’Arrigo e da altre opere nelle quali, i vocaboli o le espressioni in lingua siciliana o in altri dialetti, comparivano o in corsivo o tra virgolette.
Avevo inventato un nuovo modo di scrivere cioè un impa-sto lingua-dialetto.
Così decisi di far parlare i miei personaggi così come parlano ancora oggi in Sicilia
Questo impasto lingua-dialet-to (ma io preferisco che si dica “lingua italiana – lingua siciliana) fui il primo a porlo in essere nella storia della nostra letteratura. Dopo di me sono venuti gli scimmiottatori, (dalla Cardella al Camilleri, il quale dichiara di essersi inventato un dialetto, che a me sembra una profanazione. Oltretutto io, siciliano DOC lo trovo incomprensibile.
– Ha pubblicato recentemente qualche altra opera?
Se intende dopo Dragunara, ho pubblicato un altro romanzo ambientato in Sicilia, sempre con il mio linguaggio narrativo, il cui titolo è Occhio sinistro, ma questa volta in esso ci sono impasti diversi con la cosiddetta lingua-italiana, dal napoletano al roma-nesco, al siciliano. Questo mio secondo romanzo è prefato da Massimo Grillandi ed è presentato da Ruggero Orlando; esso è stato ben accolto dalla critica. A questo secondo romanzo ne è seguito un altro: Il cielo strasciato, prefato da M.me Laurence Donna, Premio Unesco per la Pace. Questo è un libro a cui tengo molto, perché in esso affronto i problemi dell’umanità che vanno dalla guerra alla pace, dall’ateismo alla Teologia, dal rapporto uomo-donna a quello letteratura-scienza-poesia.
Ma questo non è tempo di riflessioni; alla gente bisogna dare un vaso colmo di lenticchie e fargli indovinare quante ve ne sono contenute, oppure certi reality che privilegiano la camera da letto o attricette che mostrano generosamente il fondo schiena. Questo non è tempo di meditazione, di raccoglimento, di silenzio. E non è tempo di pace, perché è inutile affermare che non c’è ancora stata la terza guerra mondiale, a fronte delle oltre 539 guerre che si sono avute o che sono in atto in numerose regioni del nostro pianeta.
A Il cielo stracciato segue una raccolta di racconti, per lo più autobiografici, ma a volte trasfigurati, dal titolo La cassata siciliana; quindi altri racconti dal titolo Racconti culinari, libro che descrive gli ingre-dienti e la preparazione dei cibi che vengono degustati dai personaggi protagonisti di ciascun racconto, sulla scia di Proust o del Tomasi da Lampedusa. In poesia ho pubblicato L’Altra – diario di una malattia e Se appena mi sorridi – poesie d’amore, anche perché sostengo che si invecchia quando non si è più curiosi e non si è più innamorati.
Le sue impressioni circa il diffondersi, recentemente, di questo uso del Siciliano da parte di altri autori?
Sono convinto che, se la nostra lingua siciliana non sarà più oggetto di sberleffo da parte dei mezzi d’infor-mazione (essa viene usata spesso per indicare che chi sta parlando o è un mafioso in nuce o è un analfabeta oppure è un semplice e incolto campanilista), questo uso (del quale, per altro, si vergognano le giovani generazioni), non potrà che costituire per la Sicilia un grande valore culturale, non solo etnico.
Gli scrittori, almeno la stragrande maggioranza, stanno però alla finestra, convinti di non essere letti che dai soli corregionali e coscienti che, con l’Europa unita, già le lingue nazionali (rispetto all’inglese) sono considerate dialettali. Figuriamoci com’è visto il dialetto!
Ma, per esempio, in Sardegna a scuola si studia il sardo, e non pochi, come me, insegnano siciliano e ne declamano, anche all’estero delle splendide poesie che vengono comprese e apprezzate.
Se ci riferiamo, infatti, alla storia della nostra letteratura, si può affermare che, se non fosse nato Dante, questa nostra intervista si svolgerebbe in lingua siciliana…
– Come vede la Sicilia dal suo osservatorio di Roma?
Ho sempre sostenuto, anche nei miei articoli pubblicati ne Il Giornale dei Poeti (del quale quest’anno ricorre il Ventennale che ho festeggiato alla Biunghmton University di New York, su invito ufficiale della preside della Facoltà di Letteratura comparata, LaValva), che la Sicilia spesso è stata considerata la Cenerentola delle regioni d’Italia. Essa detiene molti primati negativi (tasso di disoccupazione; indice di basso reddito pro capite; abbandono dei Beni culturali e ambientali; delinquenza organizzata, quest’ultima, attualmente, seconda a Napoli).
Ma, a fronte di tanta negatività, c’è una gioventù che rivendica il proprio diritto allo studio, al lavoro e all’affrancamento sociale (basti dare uno sguardo alla produzione viti-vinicola la quale oggi rappresenta circa il 26% dell’economia dell’Isola). Dopo le morti eccellenti dei Servitori dello Stato, che rappresentava-no la salvaguardia della civiltà e della libertà dei siciliani, mi pare che ci sia stata una presa di coscienza, anche se continuano ad esserci sacche di fuorilegge che cercano e trovano alleanze con il potere. Ma io sono certo che la Sicilia è già sulla buona strada, che non è lontano il tempo di un suo rinnovato Rinascimento.
Perché recita un detto popolare: Ci su’ cchiù jorna ca sasizzi (“Ci sono più giorni che salsiccie).
Credo, infine, che il risveglio culturale attuale (quanti poeti degni di questo nome si stanno rivelando recentemente, e quanti narratori impegnati!) stanno in tutte le provincie siciliane, contribuirà non poco a una presa di coscienza del nostro popolo.
Perché, (come diceva il giudice Borsellino): «La lotta alla mafia, più che combatterla con la repressione, deve essere, prima di tutto, un fatto culturale». E questo è il destino degli scrittori siciliani.