Rosa Balistreri la voce della Sicilia

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Grazie a Vera Ambra, presidentessa dell’Associazione Akkuaria, ho avuto modo di conoscere e frequentare un personaggio del tutto particolare, che, armata di chitarra, ama proporre le canzoni di Rosa Balistreri, di cui ha anche scritto un libro Cancia lu ventu, dove vengono riportate le sue composizioni dialettali e avendo anche compilato un CD in proposito.

Per quanto brava possa essere la mia amica Cinzia Sciuto, di cui sto parlando, non è di lei che voglio evidenziare i meriti, ma della Balistreri. A Cinzia resta il vanto di avermela fatta conoscere attraverso le sue interpretazioni.

Chi era Rosa Balistreri? Una donna, certamente, ma anche un’artista che grazie alla sua chitarra ha girato in lungo e in largo su molti palcoscenici della nostra Italia, strimpellando con la sua chitarra e cantando nella sua lingua (che è anche la mia) le sue composizioni dialettali, ricche di pathos e immagini di vita.

La Sicilia è ricca di menestrelli dialettali, che assumono il nome di Cantastorie, ossia, quei popolari cantori delle vicende umane che in palcoscenici di fortuna, accompagnandosi con la chitarra, fanno conoscere al mondo che li circonda le loro composizioni poetiche su vicende e fatti di cronaca eclatanti, esattamente come avveniva nell’era romanza-provenzale agli albori delle lingue neolatine con il liuto e le poesie d’amore.

Ma mai si era verificata l’evenienza che a fare questo lavoro artistico in Sicilia fosse una donna, che fu capace di trasferire questo tipo di manifestazione artistica dalle piazze ai palcoscenici e di sostituire ai personaggi d’occasione la natura stessa del mondo siciliano e il suo modo di essere.

Con lei appare nello scenario teatrale questo modo nuovo di intendere l’arte del Cantastorie. È la Sicilia intera che canta la sua malinconica storia, dove l’acquazzina, la siminzina e la rosa marina assurgono al ruolo di personaggi maestosi e degni di attenzione, quali eroiche manifestazioni di un mondo sconosciuto, coperte da un velo, che lei riesce a strappare con la forza delle sue note cadenzate dal peltro attraverso le corde della sua chitarra.

Del resto il suo canto malinconico, la sua voce dolce e rassegnata, le sue note inventate ad hoc, rispecchiano i dolori di una vita vissuta sull’orlo del bisogno e della povertà al limite della disperazione e della perdizione.

Ecco che qui entra in gioco l’opera di Cinzia Sciuto, la quale riesce a far riemergere questi momenti drammatici della vita della Balistreri e della sua costante lotta per non essere sommersa dalle sue tristi vicissitudini.

Già, tristi vicissitudini! Poiché Rosa non ebbe una vita serena da dedicare all’arte cui fin da bambina sembrava destinata, sia per la mentalità di allora, sia per lo stato d’indigenza in cui era nata. Infatti venne al mondo nel 1927 nel profondo Sud della Sicilia, a Licata, figlia di un modesto operaio lavoratore del legno e di una castigatissima casalinga siciliana, e faceva parte di una famiglia composta da un fratello e altre sorelle il cui livello culturale era quello del tempo, improntato alle norme del tirare avanti per vivere.

Si tenga presente che tutta l’Italia, e non solo la Sicilia, si dibatteva nella crisi economica dei postumi della prima guerra mondiale e che il subentrato rivoluzionario periodo fascista, dedito all’esaltazione del-l’italico nazionalismo autarchico, dava poco spazio alle aspirazioni di crescita artistica, in particolar modo alle donne, relegate al ruolo di fattrici d’eroici virgulti.

Inoltre, a venti anni, Rosa Balistreri si trovò ad affrontare un’altra crisi altrettanto tremenda, quale quella della seconda guerra mondiale, dove l’unico spazio era quello di sopravvivere al disastro e trovare qualcosa da mettere sotto i denti.

Eppure Rosa, fin da bambina, aveva una voce che si prestava al canto, ma non poteva essere curata per le avverse circostanze.

Come tutte le ragazze dell’epoca, fu destinata a una vita da casalinga al seguito di un marito che badasse alle sue necessità e a quelle di tutta la famiglia e un marito, in effetti, le venne procurato attraverso un “matrimonio portato” (combinato).

Lo sposo predestinato fu un tale, chiamato Jachinazzu (il rozzo contadino Gioacchino Torregorssa) che, purtroppo, non risultò essere persona a modo. Infatti aveva il vizio del bere e del gioco e non esitò a dilapidare tutti i beni che la famiglia di origine le aveva dato in dote. Egli arrivò al punto di giocarsi anche i soldi destinati al futuro corredo della figlia Angela, che intanto era nata.

Era quella l’usanza del tempo di accumulare, fin dalla nascita di una figlia femmina, dei soldi per l’indispensabile corredo per il matrimonio, cui era destinata. Più ricco era il corredo, più possibilità aveva la neonata di trovare un buon partito. Il famoso assioma della “roba”, che il Verga aveva evidenziato in altri tempi era sempre valido e vigente, nonostante, anzi grazie, allo stato di bisogno del dopoguerra.

Al colmo della disperazione, durante una ennesima lite, che ebbe come esito la peggio per il marito, al punto di crederlo morto, si costituì ai carabinieri, che l’arrestarono. Per fortuna sua e del marito, quest’ultimo non morì e Rosa venne scarcerata con la condizionale.

Ovviamente fu la fine del matrimonio, ovvero, della convivenza, poiché allora non esisteva il divorzio, ma la semplice separazione legale.

Per allevare la figlia, che manteneva in collegio, fu costretta ad andare a lavorare, abbracciando tutti i mestieri, anche i più umili, quali la raccolta delle olive e delle mandorle in campagna, nonché la conservazione delle acciughe, l’andare a servizio presso famiglie abbienti e quant’altro era in grado di fare. Infine trovò una sistemazione quasi stabile a servizio presso una famiglia benestante, ma ecco che venne accusata di furto, quasi certamente perpetrato per lo stato di neces-sità in cui versava.

Venne arrestata e, scontata la pena, si trasferì da Licata a Palermo dove, per intercessione di un benefattore, trovò lavoro come custode e sagrestana presso la chiesa di Santa Maria degli Agonizzanti. Ma il suo soggiorno nel capoluogo siciliano non le fu certamente favorevole.

Essendo morto il vecchio parroco, il nuovo sacerdote pare che non la trattasse in maniera del tutto… ortodossa, per cui, insieme al fratello, calzolaio, dopo aver rubato la cassetta delle elemosine, fuggì da Palermo alla volta di Firenze, dove visse fino al 1971, per poi ritornare nella sua Palermo dopo dodici anni, dove continuò e consolidò la sua attività artistica.

Fu durante questo periodo che avvennero altri fatti tremendi che forgiarono il carattere di Rosa. Visse per un buon periodo con il fratello, che mise su un laboratorio di calzoleria e ospitò lei e le altre due sorelle Maria e Mariannina. Avvenne, poi, che una delle due, Maria, fuggita dal marito violento insieme ai figli, venne da quest’ultimo uccisa. Il loro padre, al colmo della disperazione e del dolore, si impiccò e avvenne pure che Rosa, alla fine conobbe il pittore Manfredi Lombardi con il quale andò a convivere e che la introdusse nel mondo degli artisti.

Dice un proverbio antico siciliano a proposito delle donne che “l’uomo che ti piglia ti pinge e ti dipinge”. Grazie a lui, infatti, e alle sue doti, venne introdotta nel mondo artistico e conobbe personaggi del calibro di Dario Fo, Ignazio Buttitta e Mario De Micheli, i quali la spinsero a intraprendere l’attività a lei congeniale, quella del cantastorie, utilizzando quel suo spontaneo dialetto in versi e la sua chitarra.

Finita la relazione con il pittore Manfredi Lombardi, che l’abbandonò per una modella più giovane di lei, incassando anche questo dispiacere, decise di andare a vivere a Palermo con sua figlia, che, intanto aveva lasciato il collegio ed era incinta, proseguendo nella sua attività artistica, che la portò sulla cresta dell’onda e  alla notorietà, anche perché dal 1976 si accompagnò con il compositore musicista Mario Modestini, che dette ordine alle sue poesie, scrivendone le musiche per la sua voce.

Ed è cosi che ancor oggi, intellettuali che con lei hanno collaborato, quali Andrea Camilleri, Leo Gullotta, Otello Profazio, Gianni Belfiore, la ricordano occupandosi della sua opera.

Morì nel 1990, a soli 63 anni, vittima del suo immenso travaglio, a Palermo, dove trovò la verve e l’ispirazione per la sua attività letteraria di cantastorie e poetessa del popolo.

Indubbiamente Rosa Balistreri è una pietra miliare dell’essere donna del mondo artistico moderno, poiché racchiude nel suo personaggio tutti gli elementi emergenti del folklore che diventa arte e del caparbio voler superare non solo le ambasce della vita, ma anche i soprusi di un mondo tutto votato al maschile, oltre che lo specchio riflettente delle virtù proprie dell’essere donna.

Nata e vissuta in un ambiente decisamente ostile, priva di una istruzione adeguata e di mezzi per condurre una vita serena, seppe reagire ribellandosi alle angherie del marito e nonostante fosse piombata nel disonore del carcere e sommersa dalle negatività della vita, seppe risollevarsi con la caparbia volontà delle donne, fino a raggiungere l’apice del trionfo.

Oggi, in un periodo in cui ormai la donna, dopo il 1968, ha iniziato a intraprendere un ruolo di competizione nei confronti degli uomini, appare come una guerriera in prima linea a combattere contro ogni avversità e angheria.
Un esempio dell’essere donna della nostra futura Europa, proiettata verso l’eguaglianza tra i due sessi, senza, per altro, scagliarsi infine, come fece nella prima gioventù, contro il mondo maschile, ma attingendo nel suo intimo la forza dell’arte, della poesia e della musica, nell’imitarlo e  utilizzarlo per il suo trionfo artistico personale.

Oggi, infatti, parlando di Rosa, ci si dimentica quanto di brutto ella abbia potuto fare, del suo tentato omicidio, dei suoi furti e del carcere subito, ascoltando le sue malinconiche canzoni, che si possono gustare attraverso i dischi da lei incisi al suono della sua chitarra.

Mi auguro che la mia amica Cinzia Sciuto, siciliana come lei e animata di un particolare talento a lei similare, con la sua voce e la sua chitarra, riesca sempre di più a svelare le cime nascoste della personalità di Rosa ancora non emerse, proiettando sempre di più nel mondo europeo la cultura e la gioia di vivere della mia terra.

 Pippo Nasca

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