“Quel paradosso di consapevolezza
dell’ essere niente, svuotandosi di ogni
essenza, completamente, per essere poi
qualcos’altro, qualcun’altro, qualcuno che
il più delle volte s’inventa s’inventa l’altrui
sguardo e pensiero”.
Così Laura Rapicavoli scrive all’interno di uno dei nove racconti che fanno parte della sua nuova raccolta in prosa, e in effetti il paradosso non è solo parte integrante del titolo della stessa ma elemento fondamentale che scorre lungo tutte le sue pagine.
I paradossi che ogni giorno tutti noi viviamo, le maschere che ognuno di noi porta come fardello pesante di un mondo sempre più “ pirandelliano” dove mai nulla è davvero come appare, dove infiniti punti di vista si intrecciano tra loro regalando un finale inattteso.
Questo è il mondo dell’enigmatica scrittrice catanese, il cui stile ricco di suspence e di trepidante tensione sin dall’inizio dei suoi racconti crea una forte attesa nel lettore che, credendo di seguire un filo logico, pensa di comprendere il sentimento, l’atmosfera, il dubbio che attanaglia sin dall’inizio il/la protagonista del racconto per poi rivelarsi improvvisamente con un rocambolesco finale a sorpresa in cui spesso resta incredulo.
Uno stile molto simile a quello dello scrittore americano Anthony Boucher, pseudonimo di William Anthony Parker White (1911-68), nato e morto a Oakland, in California. Fu il più famoso recensore della narrativa poliziesca, curando per anni una rubrica sul New York Times. In proprio ha pubblicato numerosi romanzi appartenenti a quel genere, da I sette del calvario (1937) a Sorella Ursula indaga (1942), in cui un delitto viene commesso al congresso annuale della fantascienza. Egli era solito scrivere inducendo il lettore a credere che gli eventi andassero verso una direzione per poi incedere nelle ultime pagine con un inatteso cambio di rotta rivelatore di una verità che nella prima parte del testo era difficilmente immaginabile.
Lo stile utilizzato nel testo qui preso in analisi prevede una scrittura abbastanza scorrevole, un linguaggio che sfiora l’eleganza, ma restando sempre abbastanza lineare e di semplice comprensione, rendendolo quindi un testo accessibile alla maggiorparte dei lettori.
È una penna morbida e delicata quella di Laura Rapicavoli, capace di rallentare occasionalmente il ritmo del racconto per poi esplodere in una forte accelerazione verso la parte finale.
Il narratore utilizzato è nella maggiorparte dei casi un narratore esterno che parla in terza persona, un narratore onniscente che conosce i fatti ed accompagna il lettore attraverso lo scorrere del racconto, ma all’occorrenza in alcuni casi fa parlare direttamente in prima persona i personaggi, facendo così percepire ai lettori le loro emozioni in maniera esplicita attraverso le parole degli stessi protagonisti.
“I Paradossi dell’esistenza”, oltre ad essere un pregievole esempio di narrativa in prosa, possono essere considerati degli ottimi copioni teatrali da poter mettere in scena per degli interessanti monologhi, d’altronde la Rapicavoli nasce e cresce artisticamente come attrice e scrittice di teatro, mondo a cui si dedica sin da giovanissima. Questa sua passione la rende ancor più intensa nel descrivere e nell’addentrarsi nei sentimenti, nelle passioni e negli atroci dubbi dei personaggi dei suoi racconti, riesce da ottima attrice a mettere nero su bianco le loro manie, il foglio diventa il palcoscenico su cui poter esibire la sua infinita voglia di immergersi negli angoli più nascosti dell’animo umano.
Un’ultima annotazione riguarda i temi che vengono trattati all’interno dei racconti “d’infiniti punti di vista”, sono uno spaccato dell’anima e della società del mondo di oggi: solitudine, inquietudine, malattia, gioia, pazzia, passione, autoerotismo, omosessualità, precarietà sentimentale e lavorativa, il desiderio che tanto si anela e che poi spesso si distrugge.
Tutto ciò e molto altro possiamo trovare nella raccolta di Laura Rapicavoli dove non viene mai a mancare il sentimento più alto che possa esistere, l’ Amore:
“Il tuffo, il bagno erano stati consumati
ormai: era riemerso da quel mare, dall’infinito
verde cangiante degli occhi di Lei,
bellissimi, in cui ogni volta si tuffava
perdendosivi dentro, perdutamente.”
Dario Miele