Un’avventura chiamata “papà” – di Vera Ambra – non è un bel libro. Nel senso che non narra una bella vicenda, che rallegri, intrattenga, e magari tiri anche un po’ su il morale, visto che la vita è già così dura. Anzi, è un libro duro, tagliente, francamente un po’ repulsivo, di quelli che leggi qualche pagina, poi ti angoscia e lo richiudi. Però, fatalmente, ti torna in mente, anche se l’incipit ti ha rattristato (che fastidio trovare contatti con la tua vicenda personale!), non foss’altro che ti scruta dal comodino, e dopo un po’ ti fai forza, e leggi qualche altra pagina. Fino alla fine. Ricavandone, se sei papà e magari hai problemi separativi, un retrogusto assai amaro, quasi da vicenda kafkiana. Claustrofobica, senza via d’uscita.
L’autrice, Vera Ambra, catanese, ha voluto rendere in forma di diario intimistico la vicenda umana di un papà separato, con problemi di lavoro, che vive una vicenda di alienazione genitoriale e non può stare con la sua bimba, centro del suo essere, accudendola e standole vicino – come sarebbe normale – ma anzi è da lei lontano, sia per le vicende separative, sia per il duro lavoro trovato altrove, ancor più lontano, che diventa necessità impellente per assicurare il benessere di una bimba, con cui non ha più contatti, ma che si porta dentro in ogni momento. Come ogni papà degno di questo nome.
E così, con piglio realista – mutuato senz’altro dal DNA della tradizione siciliana, e verghiana in particolare – l’autrice si diffonde nella narrazione in prima persona dei pensieri, delle vicende quotidiane, delle speranze del papà protagonista dell’ “avventura”, con una rappresentazione quasi in una forma epistolare, ma come – in qualche modo – indirizzandola a se stesso, scrivendo toccanti pagine di “diario segreto”.
Da leggere. Consigliabilissimo anche alle madri, sia prima che dopo una crisi separativa.
Luca Cordoni