La scomparsa di Matvejević mi ha colpita di sorpresa. Non sapevo della sua malattia e, avendolo sempre presente nei miei pensieri come una persona bellissima per la quale gli anni non contano, mi sembrava immortale, mi era inimmaginabile di non averlo sempre vicino.
Strane occasioni del passato ci hanno fatto incontrare per caso. Scambiavamo ricordi di persone conosciute a entrambi, che poi si dileguavano con un tocco leggero, nel tempo o tra spazi lontani. Non ho avuto la fortuna di annoverare Matvejević tra gli amici concretamente vicini (come Dunja Badnjević o il mio nipote Nenad Ivić) ma mi bastava quel poco della sua presenza per sentirmi aiutata e protetta dal suo pensiero. Il suo mondo è da sempre stato il mio mondo: per la voglia di libertà di pensiero, per il rifiuto dell’oppressione dittatoriale un po’ naif, ma anche mostruosa, esercitata della nuova classe dirigente, per le nostre valigie piene di ricordi di altri paesi e altri destini, spesso sradicati per l’eccesso d’identità familiare “prenziana”, segnati da un nomadismo innato come fosse un destino. C’incontravamo alle fiere del libro (Torino, Zagabria, Belgrado), o negli angoli delle strade di diverse città europee e jugoslave. Gli stringevo caldamente la mano ma con due tre belle parole non ero capace di ringraziargli fino in fondo quanta importanza lui, la sua poesia e il suo pensiero libero avessero avuto nella mia vita. Per smorzare le mie insicurezze e integrarmi in un nuovo paese in Italia – una volta per me mitica e utopica, oggi un paese reale e difficilissimo da conquistare – e per sopportare lo spettro della guerra fratricida del paese d’origine (la Jugoslavia), quando le parole si sono prosciugate e i pensieri insabbiati nella solitudine interna, la magia del “Mediterraneo” di Matvejević e la bellissima prefazione di Magris, mi hanno evocato parole, immagini, pensieri nascosti del mio subconscio personale. Cos,ì per la nuova tesi in italiano, io, che non ero più capace di andare indietro, sono stata aiutata a proseguire, a maturare.
Nel giorno della sua scomparsa – un caso o intuizione? – ero attorniata dagli amici modenesi preparando per loro una cena etnica con ricette non tanto semplici e con una dedizione completa. Ne ho messi in questa faccenda culinaria gli ingredienti più importanti: amore (verso gli amici), arte (di preparare il cibo), e poesia (poche pagine su Predrag Matvejević e della sua storia del pane quotidiano, uscito in un’antologia siciliana dell’Akkuaria, Catania 2016). A loro, ai miei amici, volevo offrire insieme col cibo, il meglio dell’anima slava dove, con la storia del pane, Matvejević riassaporava anche moralmente la quieta umiltà di un alimento che ci lega alla terra e alla semplicità (Maurizio Cucchi, “la Stampa”, 16 ottobre 2012), e dove il pane è preso come metafora di saggezza e di speranza sullo sfondo dei percorsi umani, a volte faticosissimi e dolorosi. La storia del pane, infatti, rispecchiava l’umanità intera (Domenico Nunnari, “Gazzetta del Sud”, 23 ottobre 2010). Alla conclusione della cena c’era una commozione generale tra gli ospiti. In quel momento, a nostra insaputa, secondo la religione ortodossa, la sua anima volava intorno, nell’alto.
Negli splendidi versi, moderni e raffinati, di una poetessa siciliana, Elena Salibra, dedicati al mitico paradiso Genoard, quello degli avi forti alti e biondi, arrivati dal Nord sconosciuto nelle roventi terre siciliane, traboccanti di aromi seducenti e magici, Daniele Piccini (“Famiglia Cristiana”, 33, 2014) rivela il balenare di “un sentimento di varco, di un’oltre frontiera, che sembrano trasformare l’intera realtà in una fonte di rivelazioni”.
La produzione del pane è una storia ricca di sapienza, di fede, di speranza ma anche di poesia. Ci sono ponti tra i mondi e i passati diversi, tra le terre e i cieli diversi. Uno di questi è il richiamo delle nostre origini legate ai simboli atavici e segreti. La cultura nazionale, però, secondo Matvejević, non si deve mai trasformare in un’ideologia della nazione per manipolarci a proprio uso. L’unica forma di coscienza non è quella nazionale, perché quando lo diventa, si rivela dannosa per la stessa nazione, abbraccia gli atteggiamenti tradizionalisti e retrogradi. Con il suo largo pensiero umano di un nomade nostalgico, Predrag Matvejević ci lascia questa singolare eredità – il sacro nella poesia come fonte di rivelazioni: dove il Mediterraneo abbraccia paesi del Mare Nostrum, dove tutti noi stiamo in ricerca di sicurezza e d’identità più larghe e più complesse e dove gli emigrati non smettono di riportare l’impronta delle loro terre abbandonate. Ecco, per me questa è l’eredità che Matvejević ci ha lasciato: la poesia come fonte di rivelazioni.
“Essere un ex e, da una parte, avere uno statuto mal determinato, mentre dall’altra, provare un sentimento di disagio, è un fenomeno nello stesso tempo politico (o geopolitico se si preferiva), sociale, spaziale e psicologico, si vive in uno stato di cose stravolto”, sono le parole di Matvejević. Amalgamare due mondi opposti, Est e Ovest, in un’alleanza utopica ma eternamente presente, produttiva e concreta, sono la sua eredità: un pensiero lucidamente analitico e sospinto da un trascinante slancio lirico per costruire la storia dell’umanità intera.
Che rimanga sempre con noi.
Bojana Bratić Ivić