Il festival non prevede nuovi allestimenti, come era stato annunciato. In fondo non possiamo biasimare la fondazione per questo, in un momento in cui la cultura viene calpestata insieme alla scuola. Anzi va lodata la scelta di regie ormai comprovate come quelle di Traviata e Aida, non riproponendo allestimenti osceni come quello di Violetta che muore di Aids o quella versione futuristica di Aida di qualche anno fa.
Ritroviamo quindi La Traviata con l’efficace regia di Hugo de Ana.
L’azione si svolge all’interno di cornici che idealmente racchiudono tutte le ipocrisie e falsità di un’epoca pizzi e merletti, ma che in fondo vogliono proiettare un decadimento della società attuale. Dentro queste cornici troviamo un ottuso Alfredo, che nel secondo atto indovina le palline con la racchetta e le rimbalza fuori dalla scena, ma proprio dentro quella cornice non si accorge di quello che sta accadendo. Non si chiede da dove proviene quella vita così spensierata. Da lì dentro non vede che quella felicità proviene dalla vendita degli averi di Violetta. All’interno di quella cornice il vecchio Germont ha occhi solo per la figlia ‘giovine sì bella e pura’, che non si sposerà se ‘Alfredo nega riedere in seno alla famiglia’. Il vecchio non si preoccupa che così spezza il cuore e la salute di una donna, l’unica figura nobile della vicenda.
Il ruolo di questa ‘Sublime vittima’ è ricoperto dal soprano Ekaterina Bakanova, che riesce molto bene a descrivere il personaggio, anche se la posizione del finale del primo atto è davvero infelice, costretta a cantare seduta con le gambe a penzoloni sul bordo della cornice che si solleva dal suolo. Ci ha donato uno struggente ‘Addio del passato’. A questo proposito occorre dire che è stata felice la scelta di cantare la seconda strofe che in genere viene omessa.
Il tenore Francesco Demuro trova nel ruolo di Alfredo la sua dimensione. In ottima forma ha sostenuto un cantato con un buon fraseggio fino alla fine, senza alcuna flessione. Bravo nell’indovinare le palline con la racchetta, ma altrettanto bravo nel centrare le note.
Il baritono Artur Rucinski, nel ruolo di Germont, riesce molto bene ad esaltare un personaggio distinto sì, ma provinciale nell’anima. Sostiene un canto in modo dignitoso senza cadere nella trappola di inutili colorature che spesso la parte tende.
Anche gli interpreti secondari hanno aggiunto valore a questa rappresentazione. Il dottore, interpretato egregiamente da Paolo Battaglia ci regala uno doloroso ‘la tisi non le accorda che poche ore’. Sono altrettanto efficaci Clarissa Leonardi nel ruolo di Flora, Paolo Antognetti in Gastone, Alessio Verna nella parte del Barone Douphol, Teona Dvali in Annina, Romano Dal Zovo nel Marchese, Cristiano Olivieri in Giuseppe, e Victor Garcia Sierra che copre sia il ruolo del domestico, che del commissionario.
Eleganti le scene all’interno dei quadri con bei colori, sempre di Hugo de Ana, come altrettanto indovinati sono i costumi. Eleganti le coreografie di Leda Lojodice.
La direzione dell’orchestra è stata abbastanza equilibrata nella bacchetta di Fabio Mastrangelo. Ottimo il coro diretto da Vito Lombardi.
Una esecuzione generale, insomma, che è riuscita a far vibrare tutte le corde di un animo sensibile.
La Turandot prometteva bene, con una Liù che ci ha Donato un accorato ‘Signore ascolta’ da parte di Oksana Dyka. Ma anche la risposta con ‘Non piangere Liù’ da parte del tenore Carlo Ventre (Calaf) è stato altrettanto toccante. L’Inno alla Luna è stato ben eseguito, come pure la prestazione dei tre ministri Ping, Pong, e Pang. Ruoli ricoperti rispettivamente da Federico Longhi, Francesco Pittari e Giorgio Trucco. Ben diretta l’orchestra da parte di Andrea Battistoni.
Poteva essere una serata ricca di emozioni, ma a metà del secondo atto si è scatenato un nubifragio e l’esecuzione si è dovuta interrompere. Un vero peccato!
Una superba Aida. Anche se l’allestimento di Gianfranco de Bosio è ormai provato e consolidato non possiamo fare a meno di stupirci per la solennità e soprattutto l’aderenza al libretto. In questa solennità trovano posto i momenti più intimistici dell’opera. Infatti il regista, non sacrifica quella parte drammatica dell’opera a favore dello spettacolo, come spesso fanno altri. Riesce a focalizzarli. In questa ottica Aida ci dona un accorato ‘Numi pietà’ tra le immense colonne del tempio di Iside o ‘Oh Patria mia, mai più ti rivedrò tra le palme in riva al Nilo. Lo spettatore qui non viene distratto dalla maestosità delle scane, ma riesce a penetrare in queste parti struggenti.
Aida è interpretata da Susanna Branchini. Ora in maniera aggraziata ora in maniera drammatica. Riesce forse a strappare una lacrima di commozione a uno spettatore sensibile e attento nel duetto col padre (Non maledirmi, non imprecarmi, degna sarò…). Radames, nell’interpretazione di Walter Fraccaro, riesce molto bene nelle scene dove si richiede potenza vocale, ma è inefficace il ‘se quel guerrier io fossi’, dove non riesce a rinunciare all’acuto finale (un trono vicino al sol), dove si richiede un fraseggio piano e sottile.
Magistralmente è stato ricoperto il ruolo di Amneris da Sanja Anastasia.
Un po’ perplessi talvolta lascia l’interpretazione di Amonasro da parte di Alberto Mastromarino. La pronuncia di certe frasi eccessivamente scandite, va a scapito dell’interpretazione. Però sulla sicurezza della sua vocalità non vi è nulla da eccepire.
Il Re nell’interpretazione di Romano Dal Zovo e Ramfis nell’interpretazione di Gianluca Breda contornano in maniera adeguata la vicenda. Altrettanto efficaci sono le apparizioni del Messaggero (Paolo Antognetti) e della Sacerdotessa (Elena Serra).
Buona la direzione da parte del maestro Andrea Battistoni che riesce a compattare in modo esemplare l’orchestra e l’azione scenica. Orchestra e coro si fondono dandoci gli effetti desiderati.
Le coreografie di Susanna Egri sono raffinate e il maestro Vito Lombardi conferma la sua maestria nella direzione del coro.
Per la Carmen abbiamo ormai il consumato allestimento di Franco Zeffirelli datato 1995. Un allestimento che comunque seppur spettacolare si rivela pesante, per un regista che ha sempre avuto delle mirabili trovate per rendere più efficienti i cambi di scena, mentre qui vi sono ben venti minuti di intervallo fra un atto e l’altro. Lo spettacolo che inizia alle nove termina all’una. Non è plausibile per un’opera che non è di Wagner, che mediamente dura quattro ore senza intervalli.
Lo spettatore comunque perdoni anche questo, date le enormi difficoltà economiche in cui versa l’Ente. Lo faccia per amore dell’opera e per tutte quelle persone che vi lavorano attivamente offrendo tutta la loro professionalità.
Carmen, la protagonista, è interpretata da Anastasia Boldyreva, offre una notevole padronanza vocale, magnifica l’interpretazione, ma impacciata nei movimenti. Accenna semplicemente ad una danza nel secondo atto e alla fine del primo. È priva di sensualità: attributo di cui necessita il personaggio.
Don Josè è interpretato da Mikheil Sheshaberidze. Un buon fraseggio, ma che non procura alcuna emozione nelle parti di maggior intensità. Si veda ad esempio la romanza del fiore.
Riesce meglio Gabriele Viviani nel ruolo di Escamillo, con una buona impostazione di voce e che dà risalto ad un personaggio sì elegante, ma pieno di arroganza.
Una dolce Micaela è interpretata da Irina Lungu. La sua delicatezza culmina nel terzo atto nella preghiera.
Graziose nella parte delle amiche Teona Dvali (Frasquita) e Alice Marini (Mercedes). Gradevole la loro caratterizzazione, e insieme ai personaggi Dancairo (Gianfranco Montesor) e Remendado (Francesco Pittari) hanno offerto un’ottima performance nel quartetto del secondo atto.
Il maestro Xu Zhong di provata esperienza, ha saputo tenere insieme orchestra e cantanti ed è riuscito a dare un tocco particolarmente drammatico ad un’opera dove la passione ne è il fulcro.
Le coreografie non presentano nulla di nuovo, ma è apprezzabile il lavoro di coordinamento da parte di Gaetano Petrosino.
Una stagione quindi non nuova, ma il festival areniano è salvo e si spera che una tradizione così importante per tutti i melomani del mondo non venga a morire grazie all’incuria dei vertici più alti dell’Ente e della politica.
Alessandro Scardaci
le foto sono state gentilmente concesse dalla Fondazione Arena di Verona