Se l’utopia non si è spenta, né in religione, né in politica è perché essa risponde a un bisogno profondamente radicato nell’uomo: vi è nella coscienza dell’uomo un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare scriveva Ignazio Silone.
Il termine utopia, come sentimento elevato, prettamente umano, è stato un altro nome per definire l’irreale, l’impossibile, il sogno, la fantasia, la speranza: proprio nella sua tensione alla instaurazione della giustizia, all’affermazione di un uomo nuovo nello spirito, e per quanto possibile, della felicità individuale contro il materialismo imperante e soffocante e il vuoto di pensiero, presuppone una forte tendenza etica e va letta come una risorsa spirituale verso un cammino verticale.
E improvvisamente il dio comparve davanti a lui. “Cosa ti succede Mida?” disse. “Non ho forse esaudito i tuoi desideri, non sei forse l’uomo più ricco del mondo?” “Sì, sì mio signore, ma sono anche il più infelice , perché ho perduto mia figlia e tutto questo non vale niente per me senza di lei. Toglimi il tocco d’oro..”
Mida, il re frigio che ebbe il dono di trasformare in oro tutto quello che toccava, incarna forse l’utopia di oggi, il trionfo dell’idolatria nell’occidente cristiano: il re danaro, come simbolo del potere, una sorta di mitologia socioeconomica, che lascia intuire, come dietro al danaro stesso vi sia non solo una virtuale quantità d’oro, ma un patrimonio di possibilità impensabili, un universo da plasmare a proprio esclusivo piacere?…l’utopia sociale dell’arricchimento, dell’equazione potere e danaro sembra essere diventata molto attuale: siamo lontani da Cyrano de Bergerac che sognava una moneta-poesia dove spendere sonetti e odi. Il danaro, al di là delle utopie classiche e di matrice cristiana in cui non veniva preso in considerazione, in virtù di uno scambio condiviso di valenza spirituale, è vissuto come simbolo sociale di status, un fine e non un mezzo, idealizzato da coloro che ne riconoscono la valenza di potere e di controllo.
«Mons Victorialis» : la montagna alla quale ascendevano ogni mese i Re Magi per scrutare le stelle e da cui avvistarono la cometa che li avrebbe illuminati nel cammino che poi affrontarono per conoscere e adorare Dio. Dai Magi possiamo imparare come la fede sia perseveranza, anche quando le stelle sono nascoste: attendere in silenzio, nel luogo solstiziale dello spirito, oltre la mera progettualità terrena, certi della manifestazione divina .
Mons Victorialis. Vera immagine epifanica del monte.
E nel simbolismo universale della montagna come luogo di sfida della propria finitezza sono state create le utopie contrassegnate dal sigillo della metafisica dell’ascesa. Le vette dei monti per la loro elevatezza sede stessa della divinità e della ierogamia ,simbolo materiale per una trasfigurazione spirituale: dall’Olimpo al Walhalla al monte Tabor, dagli ziqquart mesopotamici al Sion ed al Morija ebraici, dal Nebo al Carmelo biblici, al Potala tibetano, alla Montagna Bianca dei Celti al Kailash, il gigante di cristallo dei tibetani, al monte Meru tempio montagna dell’India al monte della Misericordia dei musulmani, per non dire della città del Sole di Campanella situata su di una montagna o del Purgatorio di Dante, anziché il monte Fuji degli scintoisti, per citare i più conosciuti.
Sulla montagna la divinità ha fatto ascoltare la sua voce: così come i miti sono testimoni di cieli temporaleschi, di lampi, di nubi che in prossimità delle montagne segnalano le variazioni dei sentimenti degli dei in relazione ai comportamenti degli uomini, così nella vita di Gesù la montagna per ben tre volte assurge a luogo privilegiato della manifestazione della trascendenza.
Due mondi diversi, il danaro come equazione di potere, assetato dalla libido dominandi e la montagna come trascendenza, anelito al divino, principio di equilibrio della dualità della Natura: quale straordinaria potenzialità catartica per chi, costretto come l’uomo per leggi fisiche alla non elevazione materiale, cerca di superare il limite dell’infinitesimale spazio che ci è concesso in questa terra , realizzando nella ascesa la completa realizzazione della comunione con l’Assoluto?
È noto che l’origine del termine utopia risale a Tommaso Moro, che la coniò per raffigurare la comunità umana ideale, ma compariva già nel Politeia di Platone alla fine del IV secolo a.C: l’etimologia della parola potrebbe trarre origine sia da ou-topia (luogo che non c’è) sia da eu-topia (luogo felice) ed è interessante osservare, come unendo i due significati ne nasce uno alquanto ambiguo e cioè: luogo felice che non esiste, dalle connotazioni piuttosto visionarie e slegate dal reale, ma che consente all’uomo di superare le difficoltà legate all’imperfezione della sua condizione, immaginando una società libera dai conflitti sociali, dove gli uomini possano convivere in armonia e giustizia. Un pensiero che non è aderente alla realtà, anzi, che mira a rimodellarla e aspira a diventare l’unico scenario possibile, può rappresentare però una scelta schizofrenica, come si è peraltro verificato con i modelli gerarchizzanti e totalitari di società ideali destinate al fallimento dello scorso secolo.
Merita soffermarci un attimo per fare una distinzione tra ideologia, più conservatrice, nata da interessi di parte e tesa a legittimare la realtà anziché cambiarle e utopia, che corrisponde all’atteggiamento di chi, trovandosi in una posizione subordinata e vedendo solo gli aspetti negativi della realtà, ad essa si ribella, contrapponendo un modello che immagina naturalmente giusto e migliore.
E che differenza passa tra mito e utopia? Il mito, con la funzione di evocare i ricordi di leggendari passati, dando legittimità a condizioni non sostenibili altrimenti, è qualcosa di più profondo, capace di agire sull’istinto, senza la connotazione della sua realizzazione o meno, un po’ una sorta di immagine ideale, che basa la giustificazione della propria esistenza sulla fede nella peculiare autenticità, l’utopia invece è una rappresentazione intellettuale di un progetto ideale, ma fin dall’inizio è una finzione che, inversamente al mito, sollevando il passato del suo valore, proietta tutto nel futuro.
Mito o utopia dunque la montagna? Pulsione irrazionale istintiva o ragionata riflessione? Entrambe: guardare la realtà e costruire un sogno in questa vita. Una salita come un volo che ci avvicina al cielo. Per sempre.
La crisi che deriva dal pensiero utopico è insita nella sua natura dunque facilmente strumentalizzabile ideologicamente ; il pensiero utopico, quasi un viaggio di fuga, ambisce a superare definitivamente le contraddizioni dell’esperienza umana quale unico detentore della verità e identificandosi in questo pensiero costruisce un mondo impossibile.
All’opposto, una visione dell’utopia come speranza autentica di salvezza è stata manifestata splendidamente da Ernest Bloch con “Il principio speranza”, non fuga nell’irreale, ma la valorizzazione delle possibilità oggettive insite nel contingente, nella realtà, scoprendo in essa un mondo migliore, non rinunciando mai a combattere per poterlo intuire e vivere con gli occhi della mente.
Nel Mistero delle Beatitudini, nel Discorso della montagna, la montagna è un magnifico simbolo del cammino che conduce dalle tenebre alla Luce ed è indirizzato particolarmente a coloro che intraprendono realmente la strada per la libertà dello spirito, la Via interiore con passione, con desiderio di abbandono della mondanità e sincero afflato verso il sentiero che conduce alla suprema Verità. Le Beatitudini devono penetrare nell’intelletto e nella volontà e trasformare l’esistenza: la montagna come spazio privilegiato della contemplazione, traduce la formula teologica della vita eterna, della vita che vince la morte e assicura l’utopia cristiana. Per chi non è cristiano, la montagna e il suo avvicinarsi al Cielo instilla la speranza di scrutare fino in fondo ciò che sogniamo, anche l’insperato, e fa sì che non ci si debba accontentare della mera esistenza materiale e della propria caducità E’ l’uscita dalle anguste valli della propria inanità, la scoperta di essere tutt’uno con la Natura, una dimensione di rispetto, di comunione con l’altro, di superamento dell’egoismo: speranza è una forza che va instillata, ricreata, riscoperta, lo “sperare contro ogni speranza” di Abramo.
Speranza e utopia sono complementari l’una all’altra: fu proprio l’utopia che diede alla speranza la sua ragion d’essere e all’umanità l’apertura di un nuovo cammino.
Oggi sembra che l’uomo abbia un grande compito davanti a se’: non nell’utopia, ma nella realizzazione di progetti politici quotidiani, progetti che hanno portato allo sviluppo di grandi centri di potere economico a livello mondiale, che hanno determinato la globalizzazione dei mercati e della comunicazione, a scapito delle identità individuali. La cultura dominante è devastata da una forza che abbrutisce e ingenera sempre più nelle coscienze il riduzionismo e il frammentarismo, l’uomo è indifeso, senza ideali e forza etica, si compiace di falsi idoli che lo privano di autentica speranza per il futuro ; ebbene, quest’uomo è in crisi, deve e vuole dare vita ad una nuova funzione dell’utopia in questa società del compromesso, della dispersione, del trionfo dell’ esperienza scientifica e della ragione .
Lo può fare solo ricollocandola in una sorta di neoumanesimo, comprendendo che vi sono scenari nuovi ed altri si vanno delineando, che non si può aderire a progetti ideali ”assoluti” ed assolutistici. L’utopia va ripensata per coglierne la straordinaria capacità creativa, mezzo per riscoprire il vero senso della vita, senza costringerla in strutture rigide, tenendo sempre presente i limiti della natura umana e solo in questo modo e in questa direzione l’utopia apre la strada a scenari reali ed attuabili: la montagna e la Natura consentono all’uomo l’esperienza della solitudine sospesa tra gli echi della roccia, della stupefazione del silenzio di fronte alla maestosità degli scenari e dell’incommensurabile finitezza che lo contraddistingue. Così come nel discorso della montagna, l’ascesa assurge a simbolo del cammino interiore nella ricerca di elevazione attraverso la bellezza dell’animo umano che si riflette nella bellezza primordiale del creato e la coscienza che la scintilla divina alberghi nel nostro cuore .
Un’ utopia di speranza, come nelle parole di Karol Wojtyla: “Prendi in mano la tua vita e fanne un capolavoro”!
L’utopia contemporanea, infatti, quella della vita autentica cha fa trovare al vero uomo qualcosa di più grande per cui vivere, è quella che affronta la capacità dell’individuo e della società di crescere consapevolmente, senza cercare di salvaguardare principi rassicuranti, di privilegio economico culturale ad ogni costo, senza negare le diversità, agendo nella storia, per aprire la strada alla speranza, verso la realizzazione di progetti non illusori, delineando orizzonti di certezza, che superino il disagio, l’insicurezza, il senso di precarietà, la mancanza di valori in cui credere:” L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare” per dirla con le parole dello scrittore uruguaiano Galeano.
Utopia come slancio verso la scoperta di nuovi sogni, nuovi modi di pensare, nuovi modi di vedere. Non si identifichi l’utopia come il mero desiderio di trascendimento del presente, ma come un mezzo per crescere. L’Utopia realizzabile è audace, forte, promuove l’Amore, quello di cui così bene parla Sant’Agostino: “Ciascuno è tale quale l’amore che ha. Ami la terra? Sarai terra”. Essere “terra” significa coltivare l’amore egoistico di se stessi. L’invito di Agostino è di amare Dio, perché così si ameranno anche gli altri e si costruirà la città di Dio, dove tutti sono amati e rispettati. Amore dunque come speranza non solo di vedere realizzato un amore perfetto e ideale, ma la tensione, la forza universale che ci mantiene vivi e che ci proclama uomini veri.
Una società basata sul mito della produttività a ogni costo, ha bisogno di esecutori diligenti, meri robot, senza pensiero autonomo e senz’anima e una tale società, “il capitalismo felice”, solo per una piccola parte dell’umanità a fronte di milioni di persone affamate, è destinata a fallire, per cambiarla ci vogliono non uomini a metà, ma uomini fantasiosi, creativi, non docili strumenti da manipolare… – non dimentichiamo il valore educativo dell’utopia - come scriveva Gianni Rodari: passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo.
Come le fiabe di Rodari diventano alleate dell’utopia per ridescriverla, così chi va in montagna oggi può trovarsi sì di fronte ad una natura addomesticata, proiezione della corrosione commerciale e dal sentimento di competizione e sfida, ma la forte connotazione assiologica emanata dalla spiritualità delle vette non può che realizzare un luogo di irripetibile, inesprimibile illuminazione, l’utopia che finalizza il senso dell’esistenza: “Segno di verticalità, ponte tra il basso e l’alto, la funzione della montagna consiste nel collegare le dimensioni terrestre e celeste. Simile ad un vaso alchemico, la salita realizza la mutazione del piombo in oro puro. Le rivelazioni avvengono sulle vette» come scriveva l’esegeta di mistica medievale cristiana Marie-Madeleine Davy.
Vivere nella Natura significa situarsi nel linguaggio divino, per questo i monasteri, le abbazie furono spesso edificate sulle montagne o comunque in luoghi incantevoli, proprio per meglio decifrare le parole di Dio. Ed è nello stato di semplicità, di selvatichezza, di ritorno alle emozioni primordiali e alle radici profonde della nostra esistenza, che la montagna ci avvicina alla pura contemplazione, al superamento dell’Io, realizzando l’elevazione spirituale, l’abbandono ad una dimensione celeste, nella compiutezza di un sogno utopico di un viaggio metafisico.
Pensare oggi all’utopia significa anche riferirsi a Internet, alla rete, il più potente strumento di virtualizzazione esistente, una grande Mente Globale, con vocazione di condivisione attiva, che lavora senza sosta grazie alle connessioni interattive della rete stessa; il Cyberspazio, un inghiottitoio carsico dove vi è condivisione dell’informazione in tempo reale mettendo in gioco interfacce cognitive contemporanee, portando appresso pluralità di condizioni culturali, sociali, psicologiche altrimenti possibile solo nel rapporto “de visu”: così questo spazio virtuale si popola di esseri che devono indossare il proprio avatar per le proprie virtualità, con la conseguente messa in discussione di principi morali di giustizia e l’imbarbarimento dell’informazione. È ben lontana tuttavia dal pensiero utopico per un motivo fondamentale, non mira alla gerarchizzazione dei valori, ma estende il campo dell’impossibile, rendendolo esplorabile.
Bloch, da convinto pacifista quale era, scrisse nel 1918 il suo “Spirito dell’Utopia”, dove auspicava di intraprendere, di fronte al fallimento culturale dell’Europa in guerra, la strada della fantasia, dell’azione, cercando nell’azzurro il vero, il reale. Così Giovanni Paolo II , di fronte allo spettacolo incantato delle montagne e della natura a corona della Val Visdende esclamava:” Noi tutti ritroviamo il desiderio di ringraziare Dio per le meraviglie delle sue opere e vogliamo ascoltare in silenzio la voce della natura al fine di trasformare in preghiera la nostra ammirazione. Queste montagne, infatti, suscitano nel cuore il senso dell’infinito con il desiderio di sollevare la mente verso ciò che è sublime. Queste meraviglie le ha create lo stesso autore della bellezza.”
Ora, consapevoli che il brillante neologismo di Tommaso Moro si è rivelato essere un fallimento storico, ora dobbiamo abbandonare l’idea di una società perfetta e valida per tutti con al centro del nuovo pensiero utopico l’uomo, in un sistema che identifichi il rispetto per il singolo con il rispetto per la comunità; forse le parole di Bloch nel suo Spirito dell’utopia possono stimolarci a farlo consapevolmente, ”intraprendendo la costruttiva via della fantasia, invocando ciò che non c’ è ancora….”, aggrappandoci in maniera probabilmente più matura e meno ideologica a quel “principio speranza”, speranza in un futuro migliore, nel bene, che faciliti i processi di pace, non una fuga nell’irreale, non la rinuncia a combattere per realizzare progetti sociali e politici quotidiani, ma il superamento della fragilità dell’utopia stessa.
Forse aveva ragione Aristotele, riconoscendo alla Natura un operare sensato e mai invano, quando asseriva che questo mondo è il migliore e non serve dar vita a progetti utopistici, perché ogni cosa è finalizzata in modo ben preciso?
La forza della tensione utopica rimane tuttavia viva e agisce tuttora nella nostra storia. Il valore dell’utopia sta nella sua dimensione escatologica: conferendo un senso alla vita, come meta ideale di perfezione cui tendere, realizzando una armonizzazione dell’esperienza umana tesa tra l’eccesso di materialismo e l’anelito alla sua autentica natura. Ritorni dunque l’uomo, con nuova consapevolezza, perché depositario di un progetto divino, alle sue origini selvatiche e rocciose, al retaggio di costumi ed usi sopravvissuti alla falce del progresso e alla distruzione indiscriminata, alle tradizioni che vanno perpetuate e valorizzate per la loro connotazione di proiezione nel futuro di valori del passato.
Montagna, priera della terra: l’esperienza della sacralità della montagna, inizio e fine della nostra essenza, dimensione incorrotta di verticalità, superamento dell’Io, simbolo del trascendente, come autentica vera utopia che merita oggi di essere coltivata, perché ascendendo alla vetta si realizza la montagna dentro di sé, nel proprio spirito.