L’Irredentismo triestino dei fratelli Slataper e Di Stuparich

Posted by on Apr 8th, 2016 and filed under Centenario 1915-1918. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. Both comments and pings are currently closed.

“…Vorrei dirvi: sono nato in Carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo… vorrei dirvi: sono nato in Croazia nella grande foresta di roveti… vorrei dirvi: sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi…” Così, in un celebre passo de “Il mio Carso” parlava di se stesso Scipio Slataper, a sottolineare le spinte contrastanti che laceravano, oltre la sua, le diverse anime dell’ Austria-Ungheria. 

Egli  era nato a Trieste, ultimo di 5 fratelli, nel 1888 da padre slavo e madre italiana. Dopo un’infanzia trascorsa tra Trieste e l’incontaminato Carso triestino, Scipio ancora liceale  entrò in contatto con l’ambiente patriottico:  le idee di Mazzini e di Garibaldi fecero immediatamente breccia nel suo animo romantico, pervadendolo di amor patrio e Scipio cominciò così  ad immergersi nel dibattito  sul pro o contro l’irredentismo. 

L’irredentismo fu il nodo centrale del pensiero di Slataper, che subì diverse modifiche nel corso degli anni, soprattutto dopo alcuni avvenimenti che cambiarono molto il suo modo di pensare. Il suo era un irredentismo di tipo culturale, proprio perché non riteneva fondamentale l’appartenenza ad uno stato nazionale, ma rivendicava l’italianità intellettuale degli irredenti, di stampo liberaldemocratico, ben diverso da quello pronto ad affermarsi anche con violenza di Timeus.

La tematica slataperiana si sviluppò sul problema dei rapporti tra italiani e slavi all’interno della Venezia Giulia: egli sosteneva che per risolvere la questione austriaca l’Italia avesse bisogno anche del supporto delle popolazioni slave, ma  non con la mera assimilazione degli slavi da parte degli italiani, quanto piuttosto con l’opportunità per due diverse culture di interagire e di arricchirsi vicendevolmente in una pacifica convivenza.

Con l’avvicinarsi della Prima guerra mondiale, Slataper cambierà ideale, sostenendo la guerra contro l’Austria e accettando di portare avanti la lotta per il confine naturale italiano, continuando comunque a ritenere che l’integrazione delle popolazioni slave dovesse avvenire nel rispetto e nella tolleranza. Terminati gli studi superiori, Scipio si ritirò per qualche mese nel Carso triestino a causa di un esaurimento nervoso che lo costrinse ad un periodo di isolamento. Dopo questo periodo  il giovane fu  improvvisamente folgorato da un’idea che si impose con forza: Slataper comprese che sarebbe stato impossibile pensare Trieste senza la nutrita congerie di culture che la componevano, che era quindi   la storia di Trieste ad insegnare la sua unicità, la sua diversità rispetto alle altre città italiane, poiché in essa, nel suo background si erano sedimentati secoli di passaggi, di combinazioni, di fusioni.

Con questa nuova utopia di una Trieste internazionalista, un mondo dove si incontravano e si scontravano tre culture diverse, quella slava, quella tedesca e quella italiana,,  Scipio Slataper  a 20 anni si trasferì a Firenze e si iscrisse alla facoltà di Lettere, conseguendo la laurea con una tesi su Ibsen.

A Firenze si era avvicinato al gruppo dei Vociani, l’elite più colta che si raccoglieva intorno alla rivista La Voce, dove conobbe Prezzolini e dove manifestò subito profondo interesse per i problemi politici del suo tempo e per i destini della sua città. Nonostante la frequenza dei suoi slanci e gli stravolgimenti di alcune sue opinioni però, Scipio si mostrò sempre refrattario ad ogni tipo di collocazione politica, e ad ogni banalizzazione o massificazione del suo sentire politico e sociale.

E proprio per cercare di delineare la personalità di Slataper cito alcune sue parole tratte dal carteggio con Prezzolini: “Sono un essere terribilmente energico, che non tollera sminuimento di sé, che gode dell’impeto della sua vita e piglia a pedate tutto quello che o cerca di frenarlo o di snervarlo. Ma in parte non è vero: soffro, la mia vita è lavoro; e io devo dire qualche cosa, devo sentirmi vivo nel mondo come un uragano e come il sole. Io sono poeta, le mie parole sono le sorelle dei fiori.”

L’irredentismo di Slataper  prediligeva dunque  aspetti strettamente culturali intendendo la città di Trieste come luogo di mediazione, alla luce di una superiore spiritualità, in cui le nazioni indipendenti potessero vivere in pacifico equilibrio e non riteneva fondamentale l’appartenenza allo stato nazionale, pur rivendicando pieno sviluppo dell’identità culturale italiana degli irredenti. Così ne tracciava sulla voce nel 1910 una sorta di bilancio: “è l’irredentismo culturale, quello che i socialisti affermano per la prima volta negando l’importanza dei confini politici.

E’ l’irredentismo della Voce – resasi promotrice di iniziative volte alla convivenza tra i  popoli nonché alla conoscenza ed al riconoscimento della realtà multietnica di Trieste -.

Noi non neghiamo l’importanza dei confini politici, continua Slataper, ma sentiamo fermamente che non contengono la patria. Noi, è inutile negare: viviamo internazionalmente e tra un tedesco intelligente ed un italiano sciocco preferiamo il tedesco”. Slataper fu  inconsapevolmente sempre impregnato di tale eterogeneità, soprattutto dal punto di vista culturale:  a Trieste gli stimoli letterari furono decisamente europei, e Il contatto con Firenze, poi con Amburgo dove fu per un anno lettore di italiano all’Università e poi con Roma, se da un lato arricchirono e ampliarono le conoscenze e le prospettive di Slataper, dall’altro acuirono quel dualismo (l’irresolutezza sull’essere pro o contro l’irredentismo) che lo tormentò  fino alla morte.

Nel 1915 infatti viaggia tra Trieste e Roma dove organizza la propaganda interventista; lo scoppio della guerra aveva mutato radicalmente la situazione, in quanto i tentativi di tenere separati il piano politico e quello delle identità culturali sembravano ormai impossibili. Slataper scriveva sul Resto del Carlino alla fine del 14 che la sorte per l’Italia  era ormai segnata, mentre si riconciliava con i nazionalisti ed il suo atteggiamento verso gli slavi non era più quello che esaltava lo slavo figliolo della nuova razza, perché la prospettiva che si apriva allora sull’Italia era quella di conquistare definitivamente i suoi confini naturali, in un nuovo scontro, non  solo di questione geografica o di sicurezza militare, ma una lotta tra due regioni due civiltà opposte a questo punto, quella danubiana e quella adriatica.

Gli anni della Voce si fanno così sempre più lontani e di fronte allo scoppio del primo conflitto mondiale, Slataper, cittadino dell’Impero Austro Ungarico, si batte per l’entrata in guerra dell’Italia, e coerente con il suo interventismo si arruola tra i primi nell’esercito italiano, accanto ad altri  irredentisti triestini, come Giani e Carlo Stuparich. Parte per il fronte il 2 giugno 1915; in dicembre muore, offertosi volontario per un’azione di pattuglia  sul monte Podgora.

GIANI STUPARICH

Giani Stuparich, nato nel 1891 a Trieste, fin da bambino aveva sentito parlare di Mazzini e  Garibaldi dal padre originario di Lussino e sin da giovane  partecipò in maniera propositiva ai problemi del suo tempo auspicando l’annullamento di quegli antagonismi nazionalistici e di quelle tensioni che un po’ alla volta andavano delineando lo scenario internazionale. Oltre agli ideali mazziniani, in Stuparich  vi era una certa simpatia verso il socialismo che gli studi classici  effettuati presso il Ginnasio comunale di Trieste (ora Dante Alighieri)gli avevano inculcato e che sfociarono poi nella collaborazione con la rivista fiorentina La Voce.

A Firenze, insieme al fratello Carlo e Scipio Slataper, dalle pagine della Voce Giani delinea il programma dell’irredentismo culturale e cioè della vera funzione storica di Trieste: centro di convergenza di due civiltà, l’italiana e la slava, destinate a diffondersi dalla citta giuliana all’intera Europa, grazie alla tolleranza e al dialogo.

L’identità triestina di Giani Stuparich è connotata da un duplice aspetto, lo svantaggio di essere a margine dell’impero asburgico e al di fuori delle linee di confine di uno stato ancora in fieri come l’Italia e, al contempo, l’opportunità di dover spostare il proprio baricentro altrove, per sanare le carenze culturali della città natale, dove l’impossibilità di un’università italiana impedisce di sviluppare in loco le proprie esigenze intellettuali.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, dunque, Giani Stuparich è uno studente che si muove tra l’università di Praga e quella di Firenze, che frequenta le redazioni delle più note riviste fiorentine  e che muove i primi passi di scrittore nel mondo della carta stampata. Attraverso la mediazione del concittadino Scipio Slataper, il giovane viene accolto tra le firme della «Voce» prezzoliniana come corrispondente da Praga; l’approfondita conoscenza delle vicende ceche lo porterà a pubblicare il libro La nazione czeca con il duplice intento di approfondire il passato e di illustrare all’opinione pubblica italiana la complessa realtà della mitteleuropa, illustrando e sostenendo la resistenza passiva degli slovacchi oppressi dagli ungheresi che intendevano “magiarizzarli”, togliendo loro ogni libertà nazionale.

Questi studi e queste meditazioni esplosero in Stuparich come elementi di una tensione ideale rivolta ad una pacifica convivenza tra le diverse nazionalità, ritenute libere di sviluppare la loro identità culturale e sociale. Ed è per questo motivo che si avvicinò al cd irredentismo culturale slataperiano che perseguiva il concetto secondo il quale la disputa sui confini e sull’appartenenza statuale appariva decisamente secondaria. L’educazione agli ideali dell’irredentismo e gli insegnamenti ricevuti in famiglia, lo portano nel 1906 ad avvicinarsi  alla neonata Democrazia sociale, di ispirazione mazziniana e negli animati dibattiti con gli amici accentuò sempre di più il distacco sia dagli austriacanti che dal conservatorismo dei liberali. Con le sua parole egli chiariva la sua posizione vicina a quella di Masaryk, leader dell’irredentismo ceco, che additava come esempio per tutte le nazionalità oppresse osservando che: “in quei tempi Trieste era sotto l’Austria. Essere allora italiani a Trieste e non irredentisti voleva dire mettersi in una posizione difficile, correndo il rischio di passare per slavofili o austrofili. Noi ragionavamo così: se l’Austria si avviava verso una confederazione di popoli,  rimanendo Trieste nello stato danubiano, poteva conciliare il suo avvenire economico con la sua funzione storico nazionale, senza perdere la sua identità, ma quando l’Austria scelse la strada opposta, provocando la guerra, ci fu chiaro il pericolo che correva Trieste: non si trattava più di conciliare benessere economico e italianità, ma di salvare la propria esistenza difendendosi dal pangermanesimo”. L’autore triestino auspicava il rinnovamento dell’Austria Ungheria su basi federali, in una progetto che esaltava l’Austria dei popoli, ma la sua rimase una pura illusione che svanì allo scoppio della I Guerra mondiale: Giani, il fratello Carlo e Scipio Slataper indossarono la divisa dei granatieri di Sardegna.

Lo spirito, dunque, con il quale il giovane partecipò alla guerra fu quello di fatale ineluttabilità, che colse nell’intervento italiano l’occasione per vedere Trieste finalmente ricongiunta alla sua patria elettiva. Appare chiara la grande moralità di Stuparich, il senso del dovere, la profonda pietà e comprensione per tutti gli uomini, la fede nei valori essenziali dell’esistenza, come famiglia, amicizia, lealtà per il proprio paese. Si pensi che, anche dopo la guerra che lasciò a Trieste uno strascico di intolleranze di violenza politica, di  crisi economica, causata dalla perdita del ruolo di emporio imperiale, Stuparich, disorientato, ribadì come unica via percorribile, il proprio irredentismo culturale, con l’aggiunta del socialismo riformista di tradizione austriaca, di modo che la città potesse  trovare finalmente il suo spazio nella nuova realtà europea del dopo guerra in un  messaggio assolutamente corag¬gioso (e profetico): in cui soltanto il rapporto interetnico e il reciproco rispetto delle proprie diversità garantisce la collaborazione feconda tra popoli diversi, per il progresso civile e materiale della comune terra dei padri.

CARLO STUPARICH

Carlo Stuparich, fratello minore di Giani, era un giovane intellettuale, nato nel 1894, assolutamente paradigmatico di una generazione triestina nutritasi di ideali di giustizia e libertà, che visse con intensità la crisi della civiltà europea, deciso a sacrificare la vita per quel futuro che molti intravedevano in un’Europa di progresso e di pace, rimodellata sul profilo dell’utopia mazziniana di popoli liberi e concordi e del programma federalista dell’ Austria, cogliendola da quell’ osservatorio stimolante e contraddittorio che era Trieste,( avamposto e insieme retrovia), all’ inizio della sua fioritura culturale e quasi al tramonto del suo grande ruolo storico economico. Ma non è solo l’emblematicià ideologico-culturale a rendere interessante la breve vita di Carlo: nelle lettere giunte fino a noi, le lettere fiorentine e le missive dal fronte che vanno a formare una sorta di coinvolgente diario di guerra, scopriamo un’anima grande, che si confronta con i temi filosofici e morali più pressanti del momento. La profonda passione patriottica, che sogna il congiungimento di Trieste con l’ Italia ma vuol fare di Trieste il tramite fra cultura italiana e cultura europea, in uno spirito di dialogo fraterno con tutte le nazioni, porterà Carlo e molti altri giovani, molti dei quali inizialmente non irredentisti ad arruolarsi volontari nel ’15.

Anche Carlo Stuparich va in guerra mosso dall’ imperativo mazziniano di unire pensiero e azione, convinto di dover pagare quel prezzo per Trieste proprio perché sente di esserne, come gli altri amici, la coscienza. Ma non si tratta solo di Trieste, bensì del mondo nuovo, della concordia fra i popoli che Carlo e gli altri sognano debba nascere dalla guerra, che  va fatta, e con fermezza virile. Sarà “viva l’Italia” l’ultima parola del suo Testamento, religiosamente raccolto e tramandato dal fratello Giani: grido d’amore di un uomo che era certo di servire l’Umanità combattendo per il proprio Paese.

Gabriella Pison

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