Le parole & lo Scrittore

Posted by on Jun 28th, 2015 and filed under Akkuaria, News. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. Both comments and pings are currently closed.

Le parole sono lo strumento di lavoro di chi vuole scrivere. Il talento sta nell’usarle con sapienza, rispetto, cura.
Chi lavora con le parole è opportuno che ne comprenda il significato, che conosca i modi di usarle, che sappia che l’uso improprio o esagerato o addirittura non coerente può causare distorsioni di pensiero, allontanando dall’essenza del proprio sentire. Chi lavora con le parole ha delle responsabilità.
Le parole sono patrimonio di tutti. Non occorre essere andati lungamente a scuola per usarle: di fatto tutti parliamo, ma a volte capita di dire e non riuscire a esprimere esattamente il proprio pensiero. Altre volte capita di non saper dire e allora le parole non servono più. Deve cambiare il modo di esprimere, se è necessario passando dalla comunicazione verbale ad altre modalità. A volte si esprime anche col silenzio.
Spesso capita di scendere nel mondo del proprio sentire, dove pensieri nascono e prendono forme: li chiamano idee. E capita di non aver parole per rappresentare le proprie idee, che restano allora concetti inespressi.
Uno scrittore ha scelto le parole come strumenti del proprio lavoro. L’uso della parola appropriata diventa il modo che egli ha di dire chi è, cosa prova, cosa pensa… di cosa vive. Impara a coniugare questo con quelle.

Oggi noi abbiamo tutto, anche se pare che non basti mai. Perseguendo il benessere spesso ci allontaniamo dai nostri bisogni profondi. Impariamo modi nuovi di dire quello che vediamo e che ci pare di desiderare, così il nostro linguaggio cambia, si adatta ai tempi.
A volte non si trova la parola giusta per definire un colore che tanto piace, lo si cerca intorno per indicarlo, ma il colore che vogliamo non c’è mai.
Neanche uno scrittore può compiere il miracolo di tirar fuori il colore giusto, ma il suo mestiere gli da un’altra possibilità: descrivere che emozioni gli procura; spostare quindi l’attenzione dal visibile all’invisibile: al suo mondo, il mondo che crea quando scrive.
Un libro diventa allora uno scorcio sul suo mondo, sul suo modo di sentire ciò che vede. Sul suo modo di descrivere ciò che sente, davanti a ciò che vede.
Chi ha scelto di scrivere fa questo: racconta il suo mondo. Spesso lo fa con umiltà, sapendo che quello che dice è criticabilissimo e che altri lo vedranno e racconteranno in un altro modo.
È giusto che sia così. E allora non difenderà a spada tratta il suo libro né difenderà oltre ogni barricata il suo sentire che ha descritto, ma potrà sempre chiedersi quanta onestà e semplicità gli è stata compagna mentre pazientemente cercava le parole più adatte per dire; quanto in profondo è riuscito ad andare, fino a quando le parole sono venute come dovevano venire.
E infine ecco il suo libro. Sarà tanto più buono quanto più sarà riuscito a scavare dentro di sé per trovare le profonde motivazioni dell’agire dei suoi personaggi.
E chi legge saprà quanto si è immedesimato in loro, trasferendo a loro il proprio sentire. Non è importante aver conosciuto tante persone per avere tanto da descrivere; è molto più utile aver visto tante situazioni ed averle vissute, non obbligatoriamente in prima persona, ma guardando, vedendo e immedesimandosi nelle azioni di altri e ascoltandole dentro di sé, chiedendosi perché e cosa “io” avrei potuto fare, ma anche cosa, forse, sarebbe stato meglio fare.

Mi è stato chiesto di spiegare come si scrive un libro. Io non lo so.
Posso dire come io scrivo un libro, cosa succede in me quando inizio, come abbia nella mente la storia che si dipana e si completa di momenti, situazioni, fatti e pensieri, ma non potrò mai suggerire come si scrive un libro. L’unica cosa che posso dire è che occorre un pensiero, ma questo è ovvio.
Come poi il pensiero si sviluppa riguarda ciascuno di noi. Davanti ad uno stesso fatto si possono avere tante diverse visioni, una per ciascun spettatore. Così un libro è un modo di vedere le cose: il modo dell’autore. Suo ma criticabilissimo, con una critica che ciascuno ha diritto di fare.
Credo che un libro sia buono se è accettato come “pensiero dell’autore”, ma anche se lascia spazio ad altre idee. Un tratto distintivo potrà essere l’uso delle parole o il modo di metterle in fila. Però niente ci impedisce di dire che la stessa situazione o lo stesso momento può essere descritto da altri in altro modo, perché è stato sentito in modo diverso.
Ma rimane un fatto: i personaggi sono dell’autore. In quel racconto sono suoi e si muovono come lui vuole. Guardateli in un altro modo: i personaggi sono l’autore che di volta in volta veste i loro panni e li fa agire. I personaggi sono l’autore, i mille e variegati modi di esprimere la sua personalità.
Non c’è niente di particolare in tutto questo. Ognuno di noi è così: ognuno ha tanti aspetti e personaggi in sé, anche opposti fra loro. Ognuno di noi è bello e brutto, coraggioso e vile, profondo e superficiale: dipende dalle situazioni. Chi ha scelto di scrivere, forse, coglie questi aspetti più di altri che hanno scelto altri mestieri.
Ma in uno scrittore non c’è niente di più di quanto c’è in tutti.
Per 35 anni sono stato altro e mentre lavoravo sono stato anche quello che scrive. Mi piaceva e l’ho fatto, non c’è nulla di superiore o meritevole, nulla di cui vantarsi; è un mestiere come un altro. Il mestiere delle parole.
Mi hanno detto che è difficile scrivere; che non tutti possono farlo. Che ci vogliono persone in qualche maniera speciali, diverse…
Voglio citare un premio Nobel per la letteratura, lo scrittore che meglio di altri ha saputo dire del senso del “nulla”, facendolo diventare una preghiera.

“E’ difficile scrivere? No, niente affatto. Tutto quello che occorre è un perfetto orecchio, un’intensità assoluta, una devozione al proprio lavoro simile a quella di un prete per il suo Dio, il fegato di uno scassinatore e nessuna coscienza tranne che in quello che si scrive: poi è fatta”.

Erberto Accinni

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