Da anni non scrivevo più un racconto. È stata una pausa lunga, così lunga da non sembrare possibile un ritorno. In compenso avevo letto molto e più leggevo più pensavo di avere anch’io qualcosa da dire. L’occasione fu lo sgombero della casa dei miei nonni dopo la scomparsa di entrambi. Quelle stanze, una volta piene di felicità, calore, vita, odori di cibo o semplicemente del braciere per riscaldarsi, si erano fatte fredde, anonime come i pacchi ammonticchiati negli angoli e mobili da buttare via.
Era finita un’epoca ma paradossalmente fu questo, insieme al ritrovamento di documenti e foto, a forzarmi di mettere insieme i pezzi di un racconto che mi faceva piacere ascoltare.
Leggende familiari che da bambino mi venivano raccontate come favole e forse confuse con esse nella mia mente.
Fu da queste impressioni che venne fuori il racconto “Nelle trincee del mare” con l’esperienza di sopravvissuti che ebbero sia mio bisnonno, nella prima guerra tra le trincee dell’Ortigara, sia mio nonno sulla nave militare che solcava un mediterraneo minato durante l’ultima guerra mondiale.
Presentai il racconto alla quinta edizione del Premio internazionale di poesia e narrativa Fortunato Pasqualino.
Con mia sorpresa, nel giorno della premiazione, appresi che era arrivato terzo nella classifica di narrativa, nonostante la grande partecipazione di autori al concorso e il livello davvero alto della qualità delle opere.
Questo mi procurò un enorme piacere ma presto mi resi conto di aver accettato una “sfida” lanciatami da Vera Ambra, presidente dell’associazione Akkuaria. A lei, durante la cerimonia di premiazione, avevo confidato che avevo intenzione di scrivere ancora sulla storia della mia famiglia e subito mi invitò a metterli per iscritto seguendo il tema del “ricordo” da preservare.
Se fossi riuscito a scrivere un libro in tempo per la rassegna “Viaggio tra le vie dell’Arte” avrei partecipato anch’io, avrei pubblicato il mio primo vero libro.
Non era una sfida facile, ma Vera Ambra è una donna che sa essere persuasiva come una pianista che sa quali tasti della mente di ognuno vanno pressati perché segua il suo volere.
Mi misi all’opera per raccogliere informazioni sull’internamento di mio nonno Alfio in un campo di concentramento nazista. Lui fu internato per essere stato un soldato dell’Esercito Italiano che si rifiutò, come la maggior parte dei soldati italiani internati in Germania, di combattere con la RSI.
Una ricerca non facile e che mi ha costretto a forzare la memoria di mio padre e di mia zia perché potessero quantomeno darmi i pezzi sparsi da cui ricomporre il racconto.
Gli aneddoti erano tanti e con un po’ di ricerca storica riuscii a descrivere la storia per come l’avevo in mente. “Io non sono qui” è il titolo del racconto ed è anche un mantra che mi immaginavo usasse mio nonno per resistere alla prigionia per volare col pensiero a casa, alla campagna, alla vita che aveva lasciato e che era l’unico appiglio a cui aggrapparsi quando il freddo, la fame e le malattie lo piegavano nel corpo e nello spirito.
In meno di un mese scrissi gli altri racconti, le notti e nei week-end a volte cancellando via pagine già scritte perché la storia in quel modo non mi emozionava. Avendo letto altri libri di “ricordi” volli evitare “l’effetto cronistoria”. Pur nel solco del vero ho sempre voluto che la trama fosse scorrevole, che il lettore si immedesimasse e finisse infine la lettura arricchito e fortemente emozionato, col desiderio, magari, di approfondire la storia.
Mi piace ripetere che lo scrittore debba essere un “imbottigliatore” di emozioni. Una poesia, un racconto hanno significato solo se riescono a conservare intatta e trasmettere nel tempo l’emozione che li ha generati.
Come ho appreso da Vera Ambra, scrivere un breve racconto paradossalmente è più difficile che scrivere un romanzo perché nel racconto questo atto di trasferimento dell’emozione deve avvenire avendo a disposizione poche pagine e deve infine “esplodere” nel finale.
Nascono così gli altri miei racconti sulla vita paesana durante il ventennio ne “La Provvidenza” e ne “La bicicletta”. I racconti forse più personali perché in parte fanno riferimento a ricordi diretti “Non bere la pioggia” e “Incomprensioni generazionali”.
È stata una esperienza che, non lo nego, ha necessitato un impegno non trascurabile ma sono stato infine soddisfatto del risultato, i racconti mi hanno emozionato nello scriverli e chi li ha letti credo abbia provato in parte almeno la mia stessa emozione.
Quindi sì un libro di ricordi ma scritti con l’emozione di racconti senza tempo, in cui i temi della vita, della morte, dell’amore e della famiglia vogliono essere chiavi per entrare nel cuore del lettore.
Ringrazio Vera Ambra e l’associazione Akkuaria per questa occasione e per aver creduto nelle mie capacità e permesso di pubblicare un libro cartaceo. Sono abituato a stare per lavoro parecchio davanti lo schermo, per cui un libro che leggo fuori dal lavoro preferisco di gran lunga sfogliarlo con le dita. Sentivo di dovere anche a mio nonno Alfio che questo libro uscisse adesso a settanta anni dal 1945.
Perché settanta anni fa a quest’ora lui era in una baracca del campo di Luckenwalde, tremante per il freddo, smagrito per il cibo insufficiente e fiaccato dal lavoro pesante.
Quando Vera Ambra mi ha chiesto di mettere la storia per iscritto ho sentito come se lo avessi promesso anche a mio nonno, perché ho pensato che anche il sangue che mi scorre nelle vene è passato da Luckenwalde.