Leggendoti, cara Marilena, mi son trovato circondato da tante piccole cose che mi parlano di un ambiente familiare vero, vivo e vitale pur nelle sue sofferte cronache quotidiane, sento aria di casa, profumo di amore e di condivisione. C’è tanto dolore da raccogliere tra questi tuoi versi da contrapporre alle false immagini che ci propinano i media, quelle stupide e banali pubblicità che raccontano storie di famiglie sempre allegre e sorridenti.
Questo è il pregio più alto del tuo libro, uno schiaffo alle ipocrisie e al dominio dell’effimero, alla logica dell’usa e getta, al divertimento a tutti i costi, dietro ai quali scientemente viene nascosto il tragico disagio dei nostri giovani. Quasi una denuncia civile la tua, fatta raccontandoti nel dolore con dignità senza nulla concedere alla rassegnazione.
Da un punto di vista critico-letterario, proprio in virtù di quelle piccole cose, ho sentito l’atmosfera dei poeti crepuscolari che, sfiancati dalle loro malattie, raccontavano di cose semplici nelle quali ritrovarsi e rinnovarsi per continuare ad avere il coraggio di vivere. Tu ci fai vedere i barboni che rovistano nei bidoni dell’immondizia, le strade appena illuminate fra ingialliti e fiochi lampioni, misere baracche malandate, vicoli ombreggiati sfiorati da un debole vento; ed è proprio dal fondo di questi vicoli si alza un odore di spezie semplici e grandi, un effluvio di basilico e di origano.
Questo è quello che racconti, lo fai servendoti di queste piccole cose, ma diverso è il tuo atteggiamento nei confronti della vita. Tu l’affronti a viso aperto quasi punendola mettendola in conflitto con se stessa martellandola con parole pacate, e proprio per questo molto più forti di mille urla, ricordandole che la vita è altro da questa.
La vita è fatta, come tu dici con un verso bellissimo e pregevole, da tante “rare croste di pane” contrapposte all’abbondanza altrui, ma non per queste meno gustose e nutrienti.
È nella semplicità delle cose che si diventa ricchi, in un ambito altissimo dove tu non ti accontenti e chiedi quello che ti spetta. Perché tu sai bene quello che ti spetta: il tuo spazio per vivere, liberare i sentimenti per farli volare al di sopra della nostra finitezza umana che diventa infinita nel momento stesso che la riconosciamo.
È uno dei tanti apparenti paradossi della vita, perché la vita è pregna di misteri che non riusciamo a svelare, che ci turbano e c’inquietano, sebbene inconsapevolmente sappiamo che proprio in quel segreto c’è una risposta a tutte le nostre domande.
Tu hai sempre pensato e pensi alla vita e nella sofferenza trovi una risposta importante che forse altri non troveranno mai: “una deflagrazione di gioia” che io definirei una gioia sofferta, un ossimoro che apre una breccia per vedere laggiù in fondo il chiarore del giorno, “refoli d’aria… giunti da un vento di passaggio” perché “credendo ai bisogni / estremi… il silenzio lascia le tracce”, che non andranno mai via.
Che bella quell’immagine della madre che “gira pozze gelate di / traverso, / rassegnata lievita in sacrifici… taciturna acconsente / per i figli… si infila stracci ritrovati / si arrangiava, / si riadattava smagrita / alla meglio, / pensa a non far mancare / nulla in casa”. In questo passaggio sublime tu recuperi la luce che manca “nel viale” buio e nebuloso, a causa “dei lampioni ritardatari”, dove “nubi alte imbrunirono / l’inverno”, che tu contrapponi alle vie, questa volta illuminate, ma piene di “baracche cadenti colmi / di stracci”, mentre “barboni sciupati frugavano / pattumiere” “negli avanzi misteriosi dell’esistenza”.
Ricorre spesso il riferimento al pane, il cibo essenziale e primitivo che qui si fa metafora d’una tua interiore ricerca che ti conduce alla conoscenza di possederlo, seppure a volte in forma di “rare croste di pane”, che rappresentano il vigore della tua ricchezza morale, seppure indefinita, ma di sicuro ampia ed elevata.