Quando un’opera lirica è data in una grande struttura, sia essa un Teatro Romano o un’Arena, si presenta la difficoltà di riempire gli ampi spazi a disposizione dando vita allo ‘spettacolo’.
Ma l’opera non è solo spettacolo è anche dramma, musica. E questo – registi dello spessore di Sandro Bolchi, Luigi Squarzina e Luca Ronconi, che in passato hanno firmato i più grandi capolavori del melodramma italiano, – lo hanno sempre saputo.
Lo sa anche Zeffirelli, che nella sua perenne ricerca stilistica, riesce ancora a creare capolavori che nella loro maestosità riescono sempre a mantenere la fisionomia del melodramma. Stiamo parlando degli allestimenti, seppur abbondantemente collaudati, di Carmen e Turandot di cui parleremo dopo.
Stupisce, ma non dovrebbe, infatti come l’azione si sviluppa coerentemente e in maniera sincrona con gli eventi e con la musica. Le sue trovate scenografiche, come lo spostamento del preludio dell’ultimo atto nel centro dello stesso, conferiscono una spettacolarità che non aggredisce l’amatore di opera.
Se poi allo spettacolo si accompagna una esecuzione di eccellenza, allora siamo in presenza dell’opera d’arte.
Una Carmen sensuale e perfida, è interpretata dal mezzosoprano Anita Rachvelishvili. Un Don José sedotto e poi abbandonato, ci vien fatto vivere dal tenore Jorge de León. Questi due personaggi vedono riflesse le loro immagini in uno specchio virtuale nello spocchioso Escamillo interpretato da Raymond Aceto e una buona ma coraggiosa Micaela interpretata dal soprano Tatyana Ryaguzova. Quattro artisti riescono a coinvolgere emotivamente lo spettatore culminando nella scena finale con la morte della protagonista.
Irene Favro (Frasquita), Alice Marini (Mercedes), Gabriele Ribis (Dancairo), Saverio Fiore (Remendado), ci regalano un quartetto ricco di espressività di colore.
Una menzione meritano i primi ballerini Teresa Strisciulli e Antonio Russo che hanno fatto della danza una pregevole cornice all’opera.
Il giovane maestro Henrik Nánàsi ha sviluppato una concertazione abbastanza coerente ai toni drammatici che l’opera richiede, e ha saputo risaltare in maniera equilibrata anche le scene più spettacolari, come ad esempio l’entrata di Escamillo nell’ultimo atto.
In Turandot ci viene proposto un esotismo che ci fa sognare e ci riporta indietro fino ad una Pechino ‘al tempo delle favole’, grazie all’interpretazione di cantanti che si sono ancora rivelati di elevato spessore sia vocale che interpretativo. Calaf, Il Principe Ignoto, è magistralmente interpretato dal tenore Marco Berti con un Vincerò da brivido. Liù seppur tra una folla in delirio, riesce a imporsi sulla scena fin dalla sua entrata.
Rachele Stanisci vive e ci fa vivere il suo personaggio (Liù) fino alla sua morte. Anche il vecchio Timur (Giorgio Giuseppini) riesce ad aprirsi un varco sulla scena con una struggente interpretazione del finale.
La crudele Turandot è interpretata dal soprano catanese Tiziana Caruso. Si è saputa ben districare nell’impegnativa parte degli enigmi. Simpatici sono stati anche i tre ministri Ping (Vincenzo Taormina), Pong (Paolo Antognetti), Pang (Saverio Fiore). L’orchestra è stata diretta dall’agitato Daniel Oren.
Da Zeffirelli ad un altro grande del Teatro: Pier Luigi Pizzi. Nell’allestimento de ‘Un ballo in maschera’ lo spostamento temporale dell’ambientazione dal 1600 al tardo ‘700 non dà alcun fastidio all’appassionato del melodramma, tanto meno allo spettatore comune. L’azione si svolge fuori da un colonnato con due ambienti all’esterno. Il colonnato si schiude nel secondo atto per far posto alla alle predizioni di Ulrica. La scena è magistralmente tenuta da Sanja Anastasia. Una carica interpretativa non comune, che genera in chi ascolta un impatto emotivo non indifferente. Il dissidio interiore di Riccardo è messo in chiara luce dal tenore Francesco Meli. Il soprano Hui He nel ruolo di Amelia, riesce a dare una chiara enunciazione della sua sofferenza regalandoci momenti di autentico pathos. La fedeltà dell’amico prima e implacabile marito poi è resa dal baritono Dalibor Jenis nel ruolo di Riccardo. Il simpatico Oscar, è ben interpretato dal soprano Teresa Gamberoni. La direzione dell’orchestra è affidata al giovane maestro Andrea Battistoni, con un’affinata concertazione che valorizza il contenuto drammatico dell’opera.
Un cast veramente d’eccezione che ci ha regalato momenti di trepidazione in scene come ecco l’orrido campo’ oppure l’evocazione di Ulrica, per concludere poi col commovente finale.
Per Aida occorre far un discorso diverso.
La Fura dels Baus è una compagnia teatrale spagnola che si definisce come un gruppo di ‘teatro urbano’.
Si sono occupati di un teatro distinto da quello tradizionale usando materiali naturali e industriali, e nuove tecnologie. La loro arte è stata richiesta da aziende come la Mercedes Benz e la Pepsi. In seguito si sono dedicati anche alla cinematografia e al teatro. Fedeli a questa innovativa filosofia teatrale i direttori artistici della compagnia Carlus Padrissa e Alex Ollé insieme alla stessa compagnia hanno messo in scena una spettacolare Aida ambientata in un’era futuristica che ci ricorda il film Star Gate. Due gru montate al centro della scena che innalzavano componenti per costruire alla fine una sorta di croce a specchi, che nell’ultimo atto si abbassava lentamente per divenire la tomba di Radamés e Aida.
Certamente hanno stupito il pubblico e provocato i melomani. Durante la Marcia Trionfale, dove al posto degli animali vi erano cammelli meccanici e carrelli elettrici guidati da uomini in tuta arancione e schiavi che trasportavano bidoni con rifiuti radioattivi. Le esclamazioni di meraviglia del pubblico si fondevano alle note delle trombe. Un grande spettacolo, e di grande effetto. Provocatorio senz’altro, ma che lascia scontenti i veri cultori d’opera, che forse avrebbero voluto una rappresentazione più aderente al libretto come è stata quella di De Bosio, spettacolare, ma fedele alla traccia imposta dagli autori. Allestimento e musica, due binari divergenti.
Un cast di qualità. Troviamo una splendida Aida in Amarilli Nizza che riesce comunque a regalarci uno struggente Numi pietà e O Patria mia mai più ti rivedrò mentre degli uomini coccodrillo guazzano nel Nilo e sulla sponda.
Una brava Amneris, mortificata con un cappello di fata in capo nella persona di Lucrecia Garcia. Il tenore Walter Fraccaro nel ruolo di Radamés ci offre una brillante performance. L’orchestra è magistralmente diretta dal maestro Julian Kovatchev. In definitiva una scelta che esalta lo spettacolo, ma che svilisce il melodramma.
In questa fantastica girandola di opere si inserisce una serata di Gala con protagonista Placido Domingo. La voce baritonale, talvolta artificialmente resa più scura del dovuto, ci fa capire che ‘Il Topone’, così affettuosamente è chiamato dai suoi ammiratori, è un tenore. Tuttavia ci ha regalato dei momenti di vera musica Verdiana, ben fusa con la musica diretta da Daniel Oren.
Francesco Meli e Virginia Tola di cui abbiamo già parlato, sono stati all’altezza dei loro ruoli come pure gli altri artisti che hanno reso viva la serata interrotta purtroppo da una improvvisa pioggia.
Alessandro Scardaci
le foto sono state gentilmente concesse dalla Fondazione Arena di Verona