Filomena Cerrato non è la prima opera di Klem che leggo, eppure devo dire che mi ha sorpresa, affascinata. Non vorrei scadere nella banalità rischiando di ripetere quanto detto nella prefazione quindi eviterò di complimentarmi con l’autore la cui abilità letteraria e, oserei dire, raffinatezza di penna è ormai nota ai più, che, in numero sempre maggiore, ne tessono le meritate lodi.
Da quando ho finito di leggere il romanzo mi frullano nella mente quei piccoli capolavori come “Era de maggio” o “Maruzzella” che hanno reso grande la storia di Napoli e dei suoi artisti; questo stile fa, infatti, da sfondo a un’atmosfera retrò che spesso ho avuto la fortuna di ritrovare nei racconti delle mie nonne e che sa tanto di quelle antiche cartoline opache, ingiallite dal tempo, impreziosite dai ricordi.
Mi sarebbe piaciuto, in questo gioco di associazioni, immaginare Filomena come la Sophia Loren nel film “L’oro di Napoli”, per la sua tanto decantata bellezza, ma la giovane protagonista diventa lasciva, debole, inerme vittima dei tempi ma sempre giustificata dall’autore che mai osa trattarla con asprezza. La voce narrante, infatti, molto spesso, credo volutamente, si lascia prendere da un’impetuosa soggettività e, non limitandosi più a riportare solo i fatti, dà una mano al lettore ad identificare i ruoli dei personaggi con sostantivi ed aggettivi che lasciano poco spazio a fraintendimenti. In altri casi non so se avrei apprezzato questa mancanza di freddezza, ma nel caso in questione mi ha senza dubbio aiutata a mitigare il disprezzo, a condividere sentimenti negativi che troppo spesso hanno sconfinato nel desiderio di sapere vendicato Gaetano.
È proprio la figura di Gaetano che, percorrendo una catarsi, negativa ma pur sempre catarsi, viene fuori impetuosa: se fosse stato uno spettacolo teatrale al momento dell’omicidio dei tre scagnozzi di Michele Cioffa sarebbe seguito un boato di approvazione unanime! Eppure colui che mi ha fatto trasalire per l’assurda meschinità è stato il padre di Filomena, uno speziale che fin da subito lascia intravedere la povertà morale addirittura quando si era rifiutato di insegnare a leggere e scrivere la bella figlia perché il suo ruolo era quello di moglie devota, tra l’altro di un marito che lui stesso le avrebbe scelto!
Vorrei trovare parole d’offesa eleganti per questo personaggio ma, poiché un’offesa resta tale anche se elegante, mi limito a considerare che la pena più grande sarà lui a scontarla poiché dovrà continuare a vivere insieme all’insignificante moglie, con il rimorso di essere stato lui la causa della morte della figlia oltre che del giovane verdummaro che, in fondo, nonostante lo stile di vita intrapreso una volta a casa, nemmeno la guerra era riuscita ad indurire profondamente nell’animo.
La storia dei personaggi è stata sapientemente incastonata in un momento storico delicato che, da lontana eco, diventa parte integrante dello svolgimento dei fatti. Le dignitosissime citazioni storiche nonché letterarie (il genio di Ungaretti, amico del capitano, non viene fuori solo nella poesia Sono una creatura ma anche in Soldati nella similitudine tra i soldati e le foglie d’autunno) rendono ancora più interessante il tutto e si fanno emblema di conoscenza entusiasta e profonda. Il dialetto napoletano tanto vero quanto verace si fa portavoce di una radicata povertà culturale e, al tempo stesso, arricchisce i fatti di un sapore di genuinità, di quella carnalità che, lasciatemelo dire, solo la nostra terra sa dare!
Forse è il sentirsi parte del tutto che ha generato in me un profondo senso di trasporto sia per vittime che per carnefici. Le frasi scarne e musicali dei dialoghi rendono quasi altisonanti sostantivi e aggettivi usati in un corretto quanto semplice italiano così da giocare tra due stili diversi seppur appartenenti alla stessa terra, frutto della stessa cultura. I flash con cui l’autore narra la sua storia, pregni di pathos e, allo stesso tempo, non prolissi di descrizioni collaterali, rendono leggero lo scorrere dei fatti e lasciano apprezzare la semplicità dei luoghi, dei personaggi poveri di tasca e alcuni anche d’animo.
In questo gioco di contrasti, di luci e di ombre, la Belle époque rappresentata attraverso baffi, bombette, macchine fiammanti, ma anche con la povertà che regna sovrana tra i più, si fa nostrana, vicina a noi, lontana dai boulevards di Parigi, dagli sfarzi della monarchia italiana, lascia andare le fredde stampe di Toulouse Lautrec per conquistare un mondo fatto ad acquerelli, dai colori semplici, dalle tinte calde e accoglienti, contesto di una bella storia.
L’epilogo, purtroppo, non lascia a bocca aperta, come in una sapiente tragedia greca, sia il buono (che nel frattempo ha perso i tratti di personaggio incondizionatamente positivo) che il cattivo devono morire perché non è possibile considerare, almeno nei libri, che siano coloro che ammazzano e che conquistano il successo con la violenza, calpestando i più poveri, in un eterno conflitto sociale, ad andare avanti. Filomena è inconsapevole causa quanto sofferta vittima di tutto ciò che le accade intorno, scompare insieme ai due uomini che l’hanno amata ma, anche in quel caso, non resta niente al lettore di lei, forse per l’inconsapevole trasporto che si ha per il cattivo il quale ha, di solito, un carattere forte, multisfaccettato o forse per il suo ruolo relegato in cui la società del tempo confinava la donna.
Sono, dunque, tanti i temi che vengono fuori da questa storia, uno in particolare fa capo alla malavita organizzata, tema purtroppo sempre attuale, che in modo coscienzioso l’autore ha presentato cogliendola proprio sul nascere, nel trapasso da massoneria a camorra, segnando nero su bianco che l’origine dei mali della nostra regione e in generale del Sud affonda le proprie radici in ben lontani periodi.
Voglio concludere, però, con una vena di campanilismo che mi ha vista particolarmente partecipe quando Raffaele e Gaetano manifestano il coraggio e la bontà d’animo de “’o core d’’a ggente d’’o Sud!” prima di partire alla carica sul nemico; il capitano Corsi di Cuneo dice di conoscere e ammirare quelle doti, in una commovente scena di guerra.
Nonostante l’assurda politica del Governo di reclutare gente del Meridione per riempire le trincee al fronte, la scarsa considerazione di persone come o peggio degli animali, in questo toccante passo ho ritrovato il senso di appartenenza alla stessa Terra che ormai troppo spesso ci viene a mancare, un po’ per ignavia, un po’ perché ci viene aspramente strappato dal cuore.
Raffaella Belvedere