Improvvisamente, il Dio comparve davanti a lui. “Cosa ti succede Mida?” disse. “Non ho forse esaudito i tuoi desideri, non sei forse l’uomo più ricco del mondo?” “Sì, sì mio signore, ma sono anche il più infelice, ho perduto mia figlia e tutto questo non vale niente per me senza di lei. Toglimi il tocco d’oro, fai tornare ogni cosa come prima e non cercherò più di accumulare ricchezze al di là dei sogni umani”.
Mida è colui che incarna meglio di qualunque altro l’utopia di oggi, dove il denaro rappresenta il simbolo del potere, della sicurezza, della superiorità, dell’arroganza, in una sorta di mitologia socioeconomica, che lascia intuire, come dietro al danaro stesso vi sia non solo una virtuale quantità d’oro, ma un patrimonio di possibilità impensabili, un universo da plasmare a proprio esclusivo piacere.
È noto che l’origine del termine risale a Tommaso Moro, che la coniò per raffigurare la comunità umana ideale, ma subito è importante valutare l’etimologia della parola perché potrebbe trarre origine sia da ou-topia (luogo che non c’è) sia da eu-topia (luogo felice) ed è interessante osservare, come unendo i due significati ne nasce uno alquanto ambiguo e cioè: luogo felice che non esiste, dalle connotazioni alquanto pessimistiche oltreché visionarie e slegate dal reale; un pensiero che non è aderente alla realtà e aspira a diventare l’unico scenario possibile, fino ad arrivare ai modelli gerarchizzanti e totalitari creando società ideali destinate al fallimento.
La crisi che deriva dal pensiero utopico è insita nella sua natura dunque facilmente strumentalizzabile ideologicamente; non prestando attenzione alla concretezza del vivere sociale, il pensiero utopico ambisce a superare definitivamente le contraddizioni dell’esperienza umana favorendo la diseguaglianza sociale e manipolando la realtà, quasi che nell’utopia fosse insito il seme della violenza.
All’opposto, una visione dell’utopia come speranza autentica di salvezza è stata manifestata splendidamente da Ernest Bloch con “Il principio speranza”, non fuga nell’irreale, ma la valorizzazione delle possibilità oggettive insite nel contingente, nella realtà scoprendo in essa un mondo migliore, non rinunciando mai a combattere per poterlo intuire con gli occhi della mente.
Una società basata sul mito della produttività a ogni costo, ha bisogno di esecutori diligenti, meri robot, senza pensiero autonomo e senz’anima e una tale società, “il capitalismo felice”, solo per una piccola parte dell’umanità a fronte di milioni di persone affamate, è destinata a fallire, per cambiarla ci vogliono non uomini a metà, ma uomini fantasiosi, creativi, non docili strumenti da manipolare… – non dimentichiamo il valore educativo dell’utopia - come scriveva Gianni Rodari: “Se non sperassimo a dispetto di tutto in un mondo migliore, chi ce lo farebbe fare di andare dal dentista?”…
Vi sono peraltro utopie che preconizzano un futuro in cui la scienza e la tecnologia, con i loro strumenti, creeranno uno stile di vita utopico, per esempio con l’allungamento della vita stessa, grazie anche al miglioramento della salute, fino al superamento della morte, dell’entropia finale, in quella che qualcuno ha definito “estropia”.
La crisi delle grandi utopie politico-sociali del secolo scorso ha accentuato invece la percezione della nostra impotenza, dando vita ad un clima di diffidenza; con l’esasperazione dei centri di potere, con la globalizzazione mondiale, risulta impossibile riferirsi a valori assoluti e universalmente condivisi e di conseguenza c’è una tendenza a coltivare gli interessi individuali, a ripiegarsi nell’alimentare il proprio particolare.
Cioran scrive che le utopie sono inferni rosati, le accusa di essere capaci solo di anticipare un futuro squallido e sulla traccia delle parole dell’Apocalisse “Presto sarà la fine di tutto: vi saranno un nuovo cielo e una nuova terra”, inquadra l’utopia nella prospettiva di un nuovo avvento, quella che definisce parusia degradata…. classiche forme di speranza dei diseredati, che cercano di sfuggire all’angoscia del presente.
Pensare oggi all’utopia significa anche riferirsi a Internet, alla rete, il più potente strumento di virtualizzazione esistente, una grande Mente Globale, con vocazione di condivisione attiva, che lavora senza sosta grazie alle connessioni interattive della rete stessa; il Cyberspazio, dove vi è condivisione dell’informazione in tempo reale mettendo in gioco interfacce cognitive contemporanee, portando appresso pluralità di condizioni culturali, sociali, psicologiche altrimenti possibile solo nel rapporto “de visu”: così questo spazio virtuale si popola di esseri che devono indossare il proprio avatar per le proprie virtualità, con la conseguente messa in discussione di principi morali di giustizia, l’abbrutimento stesso dell’informazione a vantaggio dell’interesse, della violazione delle norme e delle regole. È ben lontana tuttavia dal pensiero utopico per un motivo fondamentale, non mira alla gerarchizzazione dei valori, ma estende il campo dell’impossibile, rendendolo esplorabile.
Matrix, il film dei fratelli Wachowski, interpreta bene questa sfera del pensiero umano dei nostri tempi, la realtà virtuale appunto, riuscendo a diventare metafora di profondo impatto nel dibattito anche filosofico e su cui merita soffermarsi un attimo a riflettere; ”Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero?” chiede Morpheus, uno dei protagonisti del film… “perché reale è ciò che tocco, vedo, sento, perché arrivano degli impulsi elettrici al cervello”. Così la realtà prospettata dal film esiste in quanto parte di una neurosimulazione interattiva chiamata appunto Matrix, creata naturalmente per estendere il controllo su tutto e su tutti… tanto per cambiare, utopia del terzo Millennio!
Bloch, da convinto pacifista quale era, scrisse nel 1918 il suo “Spirito dell’Utopia”, dove auspicava di intraprendere, di fronte al fallimento culturale dell’Europa in guerra, la strada della fantasia, dell’azione, cercando nell’azzurro il vero, il reale… indicando una via da percorrere lunga, un obiettivo a lunga scadenza, ma possibile.
Oggi ci troviamo di fronte ad un sistema “planetario”, sconfitta la Russia di Lenin con la caduta del muro di Berlino, finita la guerra fredda, comunque una pluralità di sistemi in conflitto, dunque un sistema che si automantiene e che si autocelebra, che non ha più confronti con l’esterno, guarda solo in se stesso in modo totalizzante, monopolistico, l’Impero come lo ha definito qualcuno e come tale non e ‘possibile guardare al di fuori; l’arma dell’utopia si fa strada rappresentando l’autentica sua funzione di modello ideale, si deve uscire da questo dentro chiuso, senza scivolare in un facile ed inutile idealismo, liberarsi dalle catene che legano l’uomo in fondo alla caverna e pensare ad un’altra realtà da contrapporre a questa, rammentando il pensiero di Kant, quando scriveva che l’uomo deve essere sempre considerato un fine e mai solamente un mezzo.
L’utopia va ripensata per coglierne la straordinaria potenzialità catartica, la sua libertà’ creativa senza costringerla in strutture rigide, tenendo sempre presente i limiti della natura umana, solo in questo modo e in questa direzione l’utopia apre la strada a scenari reali ed attuabili.
L’utopia contemporanea è quella che affronta la capacità dell’individuo e della società di crescere consapevolmente, gestendo le contraddizioni senza riferimento a ideali assoluti e definitivi, senza cercare di salvaguardare principi rassicuranti, di privilegio economico culturale ad ogni costo, senza negare le diversità, agendo nella storia, per aprire la strada alla speranza, verso la realizzazione di progetti non illusori, delineando orizzonti di certezza, che superino il disagio, l’insicurezza, il senso di precarietà, la mancanza di valori in cui credere.
È facile farsi blandire dall’utopia, basti pensare alla distopia rappresentata oggi da un evento mediatico come il Grande Fratello; già Orwell nel suo romanzo “1984” metteva in scena una cosiddetta cacotopia, una utopia al rovescio, in cui idealizzava una società che deteneva il controllo dell’informazione in un mondo di totalitarismo soffocante, trascendendo la centralità dell’individuo.
Oggi ci ritroviamo ad assistere ad un altro grande fratello mediatico, che nonostante l’apparenza di reality show per famiglie, porta in sé un analogo fervore ideologico, l’utopia del controllo e del potere, l’assenza infine di libertà, la condivisone spontanea di un sogno… ma quale sogno? Quello dei personaggi dello show che vivono da protagonisti per una stagione, la spettacolarizzazione ad ogni costo? O i telespettatori che assistono passivi, quasi accettando per vera una verità che vera non è? Si crea un mondo di cartone, assolutamente fasullo, alla fine angosciante perché è una rappresentazione deteriore e costantemente filtrata-manipolata dell’umano agire, in una mistificazione dei valori stessi dell’uomo, un’utopia priva di slanci evolutivi. Ahimee’, si sta creando un mondo di schiavi felici, assetati dalla libido dominandi (sete di potere per cosa? per ricevere qualcosa non pari a propri bisogni e far crescere coloro i quali lavoreranno sempre meno consapevoli di ricevere comunque?) in una visione capitalistica deteriore, in cui non esiste più il merito, ma la capacità di apparire, ingannando anche se stessi.
Riandando all’inizio di questo discorso, l’utopia dell’equazione potere e danaro sembra essere diventata molto attuale; siamo lontani da Cyrano de Bergerac che sognava una moneta-poesia dove spendere sonetti e odi, attraverso le utopie storiche dove l’aspetto economico è il fulcro dell’utopia stessa: il danaro, al di là delle utopie classiche e di matrice cristiana in cui non veniva preso in considerazione, in virtù di uno scambio condiviso di valenza spirituale, è vissuto come simbolo sociale di status, un fine e non un mezzo, idealizzato da moltissimi uomini che ne riconoscono la valenza di potere e di controllo.
Bene ha detto Widmann in un saggio che il danaro e’ simbolo, in quanto lascia presagire che dietro alle banconote ed alle carte di credito, celato nei numeri di un estratto conto e nello spessore di un portafoglio, vi sia qualcosa di più impalpabile. E cioè un patrimonio di possibilità, di sicurezza e disinvoltura, di superiorità…e di meschinità infine a cui anelare sopra a tutto.
È molto discussa l’ontologia del danaro per cercare di capire la sua essenza; intanto cominciamo col dire che il danaro è danaro solo perché la gente crede che lo sia, è un’entità astratta e immateriale… cosa si cerca nel desiderio di possedere danaro, nell’utopia di Mida moderni? Non il danaro in sé, ma l’essere titolari di un certo ammontare, di uno stato sociale… insomma la possibilità di vantare un credito verso tutta la società, il potere d’acquisto infinito.
È dunque giunto il momento di reinventare l’utopia? Siamo pronti e capaci di formulare le basi di una nuova progettualità sociale ed esistenziale che, in questa fase storica di indeterminatezza e di crisi delle certezze, abbia valenze tali da affascinarci, nuovo avvento nel vuoto ideologico lasciato dai pensieri dominanti nel secolo scorso? Due utopie nazionaliste, milioni di morti per un sogno di cambiamento, due utopie in cui la cieca fiducia all’organizzazione razionale della società diventa culto religioso, narcotizzando la mente fino a creare un’infernale macchina che toglie ogni libertà all’uomo.
Ora, consapevoli che il brillante neologismo di Tommaso Moro si e’ rivelato essere un fallimento storico, ora dobbiamo abbandonare l’idea di una società Perfetta e valida per tutti con al centro del nuovo pensiero utopico l’uomo, in un sistema che identifichi il rispetto per il singolo con il rispetto per la comunità; forse le parole di Bloch nel suo Spirito dell’utopia possono stimolarci a farlo consapevolmente, ”intraprendendo la costruttiva via della fantasia, invocando ciò che non c’ è ancora….”, aggrappandoci in maniera probabilmente più matura e meno ideologica a quel “principio speranza”, speranza in un futuro migliore, nel bene, che faciliti i processi di pace, non una fuga nell’irreale, non la rinuncia a combattere per realizzare progetti sociali e politici quotidiani, ma il superamento della fragilità dell’utopia stessa, che travalichi l’anarchia dello stato di natura e dell’idea di stato pianificatore.
Forse aveva ragione Aristotele, riconoscendo alla Natura un operare sensato e mai invano, quando asseriva che questo mondo è il migliore e non serve dar vita a progetti utopistici, perché ogni cosa è finalizzata in modo ben preciso?
Gabriella Pison