Perché una donna possa giungere a rivoltarsi contro la propria prole, è un fatto tanto misterioso quanto controverso. La maternità è quanto di più sacro ed idealizzato ci possa essere; chi ci dà la vita non è associabile a chi può togliercela, e la distruttività materna è generalmente considerata una dimensione totalmente separata dalla maternità, dalla famiglia, e dai sentimenti.
È la consueta dissociazione del bene dal male, del bianco dal nero, di una cultura che, da tempo immemorabile, tende a ignorare la comprensione delle nostra complessità umana, e pertanto trova estrema difficoltà nell’inquadrare l’esplosione della distruttività all’interno di un contesto familiare ideale, intimo, rassicurante, e ancora di più quando la distruttività deve essere posta in relazione con una madre, facente parte del cosiddetto sesso debole.
Se nella nostra società, da un lato impera la tendenza a superare i limiti della natura, in una ossessiva ricerca di perfezione estetica, dall’altro sempre più spesso assistiamo confusi ed inermi a fatti di violenza inspiegabile da parte di madri nei confronti della loro prole.
Il giudizio più comune affibbiato a questi casi è “la pazzia”, comunemente con questo termine, si intende indicare una realtà totalmente diversa dalla propria, e da una condizione di “normalità”.
Tuttavia la frequenza con cui questi atti efferati vengono compiuti, specie da quello che viene considerato il sesso debole, il quale parrebbe essere meno offensivo, suscita poi molte questioni su quanto, e in quali circostanze, gli esseri umani non siano poi così diversi gli uni dagli altri.
Ciò che più sorprende, è che spesso le donne in questione, sono generalmente considerate da parenti e amici vicini, come donne assolutamente normali, almeno fino al giorno in cui il delitto viene commesso. Ma purtroppo succede molto spesso. È successo ancora in questi ultimi giorni a Carovigno in provincia di Brindisi, dove una bimba è stata uccisa dalla madre con il diserbante e dopo il delitto la madre, come accade altrettanto spesso, ha tentato il suicidio. Ad aggravare lo stupore e l’orrore, è che anche questa volta nessuno se lo sarebbe aspettato, grazie ad un luogo comune profondamente radicato, che non consente di associare la madre all’assassina, come se una donna alla pari di un uomo non fosse capace di tutto.
Tuttavia oltre la spessa cortina dei luoghi comuni e credenze popolari, sovente si intravvedono volti di donne che soffrono di una qualche forma di malattia mentale assai spesso correlata alla gravidanza, o alle reazioni post partum, e se prendiamo in considerazione lo stress della maternità associato al suo conseguente isolamento a causa di assenza di un adeguato sistema di sostegno familiare e sociale. Alle volte c’è da sorprendersi che disgrazie del genere non capitino più spesso; il nostro sistema sociale non è di certo orientato a favore della nascita e della crescita dei bambini secondo criteri naturali oltre che umani.
In natura gli animali uccidono la propria prole solo in condizione di grave stress; in un gesto estremo di protezione, un animale arriva ad eliminare la propria prole per sottrarla al nemico. A differenza del mondo animale, dove per quanto atroce se ne comprendono le ragioni, codesti gesti estremi, nei confronti di queste matricide, vengono semplicemente etichettati come “pazzia”. Purtroppo la visione altamente idealizzata della donna, e della maternità, non consentono di sollevare i veli per comprendere gli elementi compositivi di certe tragedie umane. Pertanto l’analisi del mito di Medea può fornirci degli spunti di comprensione per far luce su eventi oscuri e apparentemente inspiegabili.
Nonostante la mitologia classica ci parla della matricida Medea, essa è un personaggio estremamente controverso, in quanto era una donna di grande valore e capacità di sentimento, modello di grande integrità, figlia del re della Colchide Eete, nipote del Sole come la maga Circe, depositaria di un sapere antico, ed esperta guaritrice a proprio agio nei meandri dell’occultismo, per nulla sottomessa al giudizio e al potere dell’uomo.
La storia narra che Medea era follemente innamorata di Giasone, tanto ché lo aiutò a conquistare il vello d’oro senza esitare, uccise lo zio usurpatore del trono e persino il suo fratellino minore, e dopo fuggì a Corinto. Nella città dorata Medea, straniera in terra straniera, entrerà in contatto con una civiltà diversa dalla sua Colchide, dove viveva una cultura in cui alle donne veniva affidato esclusivamente il legame con la terra, con la quale stabilivano una profonda simbiosi, nel tentativo di stabilire un rapporto armonico ed equilibrato con essa, mentre agli uomini veniva affidata la caccia.
A Corinto invece, l’uomo tentava di dominare l’universo e di assoggettarlo al proprio potere, servendosi di una scienza riduzionista, che dimentica il nesso profondo tra uomo e natura, poiché impone a monte una precisa scelta sulle variabili in gioco. Medea perciò, verrà a trovarsi completamente fuori luogo, e diventerà l’emblema della tragedia dell’alterità, dell’opposizione uomo-natura, uomo-donna, amore-potere, della disperazione correlata alla rottura di patti sacri, della psicosi che subentra alla violazione dell’interezza e dell’integrità della donna, ed in particolare del genere umano in generale.
Un approfondito esame del mito di Medea, ci rivela la realtà complessa di un personaggio dai molteplici volti: una moglie tradita e disperata che denuncia la sua condizione di abbandono in un contesto che non le offre altre risorse, che la restituisce alla solitudine e alla disperazione del suo essere straniera, lontana dalla patria, priva di parenti, di protezione e di difesa.
Accanto alla Medea compatita come vittima e giustificata nelle sue rivendicazioni, vi è dunque la donna capace di ordire le trame più complesse e insidiose: il dolore e il furore di Medea tradita, e la fredda razionalità di Medea vendicatrice, convivono alternandosi fino al momento in cui essa precisa i termini del suo piano e annuncia il proposito di uccidere, oltre la nuova sposa di Giasone, per la quale fu abbandonata, anche i suoi figli avuti da Giasone, come atto “necessario” al giusto completamento della sua vendetta.
Dopo aver ricoperto il ruolo di sposa umiliata e di “femmina scaltra”, ecco ora la “donna-mostro”, nell’atto di compiere il più turpe dei delitti, quello che nessun oltraggio subìto, nessuna legge umana e divina può giustificare e men che meno comprendere. Non è solo in gioco l’atrocità del delitto dell’uccisone della propria prole, bensì la violazione di uno stereotipo di perfezione femminile che nel corso dei secoli è divenuto sempre più potente.
La madre pura e perfetta, rappresenta tuttora nell’immaginario collettivo il traguardo più ambito dell’essere donna, e totalmente in contrapposizione con la realtà della madre cattiva e ignobile, della Medea, o della Femme-fatale. La linea di demarcazione è impietosa e condanna la donna ad essere spaccata in due: da un lato millenni di idealizzazione, e dall’altra tutta la sua naturalezza e bestialità, che può esplodere quanto meno ce lo aspettiamo come una incontrollabile forza della Natura.
Da una buona madre, ci si aspetta che sia materna in ogni senso del termine: paziente, nutriente, simpatetica, gentile, carina, totalmente devota ai figli in qualunque circostanza della vita, anche quando è sola, senza aiuto, deve essere in grado di proteggere e crescere i suoi figli. La madre perfetta inoltre, è casta, completamente fedele al proprio sposo; fa parte di un sistema perfetto dove trova il modo di essere d’aiuto anche a quanti nella sua comunità necessitano del suo aiuto.
Una donna, non può permettersi il lusso di essere una madre mediocre, o semplicemente passabile, deve essere perfetta, altrimenti, automaticamente verrà a trovarsi nella schiera delle madri cattive, senza beneficiare di mezze misure. La dicotomia: madre perfetta/madre cattiva ci è ampiamente propinata dai vari media, appiattendo costantemente l’identità delle donne, condannandole ad una fragile realtà monodimensionale, perpetuando un modello ideale che richiede l’applicazione di standards disumani e impossibili, fonte di maggiore stress e disperazione, non solo per le madri ma anche per i loro figli.
Riscontrando dunque che al giorno d’oggi l’aumento della violenza nei confronti dei bambini all’interno delle famiglie, è sempre più spesso per mano materna, dovremmo riflettere meglio sulle cause, e questa scottante problematica necessiterebbe di una esplorazione più profonda e più ampia, nella speranza di arginare la dilagante violenza familiare e sociale.
Antonia Iurilli Duhamel