Scrivo da quando avevo 25 anni. Ho provato a pubblicare da quando ne avevo 29.
Era un desiderio, un sogno di gloria, se volete anche di riscatto personale.
Avevo avuto una recensione favorevole da parte di un critico molto serio ormai morto: Mario Spinella. Gli avevo proposto la lettura del mio primo romanzo e dopo una settimana mi fece il commento più bello che abbia mai avuto, forse perché è stato il primo: “Finisce come deve finire”.
Mi incoraggiò a pubblicare, a non cedere davanti alle delusioni, a non avvilirmi. Mi presentò a conoscenti che avevano una idea che oggi potremmo definire precorritrice degli e-book: produrre floppy disk da leggere sui computer o – con un piccolo sovrapprezzo – stampare su carta a striscia continua delle vecchie stampanti, per abbattere i costi del libro tradizionale. L’idea non attecchì. L’Italia nei primi anni ottanta era poco tecnologica e Word era di là da venire. I primi notebook costavano cifre spaventose.
Mi propose a un premio letterario del quale era presidente di giuria, assicurandomi che sarebbe stato un successo. Quell’anno preferirono i racconti brevi, e lui si dimise per solidarietà.
Mi propose infine a Feltrinelli. Poi purtroppo morì, e alla Feltrinelli prima mi dissero che non avevano nessun manoscritto mio, poi ammisero di averlo avuto ma di averlo cestinato.
Morì così il sogno di gloria, e mi rassegnai a essere uno dei tanti scribacchini che – per le continue delusioni – lasciano il loro sogno nel cassetto.
Più avanti negli anni conobbi la redattrice della casa editrice Bompiani-Sonzogno che parve mostrare interesse per il “pupo”, come lo definì. Dopo un paio di settimane mi fornì il suo parere editoriale: era un racconto simile a tanti altri; quanti avevano scritto racconti sulle avventure di gioventù?
Non replicai. Quanti avevano scritto romanzi sulla prima guerra mondiale? Quanti sulla seconda? Quanti avevano pubblicato ricette di cucina? Quanti avevano raccontato le avventure da adolescente? Sono sicuro che chiunque scriva su un argomento qualsiasi, certamente è stato preceduto.
Rassegnato a non pubblicare mai, mi decisi a inviare dei racconti a un sito di internet. Li trovarono buoni e li misero in rete. Così conobbi Vera Ambra.
Vera lesse i racconti, le piacquero e mi propose di pubblicare qualcosa. Dapprima lessi la sua mail con superficialità. Pareva una delle tante offerte che ricevevo: un parere editoriale, un contratto, il versamento di una cifra iniziale di tot mila euro per le spese, la distribuzione e tutto quanto propongono in questi casi.
Nemmeno andai a guardare il suo sito; archiviai la mail e non ci pensai più. Ma svuotando il cestino delle mail tempo dopo, ecco che mi venne nuovamente sottomano. Non saprei dire se sia destino, caso o combinazione. Se sia opera di una volontà superiore o se in definitiva – nonostante l’ostentata aria cinica sull’argomento – ancora un poco dentro di me lavorasse la speranza, ormai sfrondata da sogni di successo, di essere pubblicato, però ripresi la mail e – con tutto lo scettiscismo del caso – risposi.
Era agosto del 2007. A novembre di quell’anno, alla libreria 900 di Milano, assieme ad altri autori di Akkuaria ebbi l’occasione di presentare il mio libro: Il Vascello Incantato.
Presentare per modo di dire, perché non riuscii a dire granché. Provai una sorta di stanchezza in quel momento, e mi sentivo vuoto.
Ero davanti a un pubblico: ero arrivato dove volevo e non me importava nulla. Mi sentivo molto stupido e molto stanco e molto fuori posto.
Era l’occasione per potermi vendere – e bene tutto sommato, non a chiacchiere perché il libro c’era – e sentivo dentro di me il senso dell’inutilità.
Il pubblico mi guardava e aspettava. Io fissavo qualche volto cercando di trarre ispirazione ma nessuno dei bei discorsi della vigilia mi veniva; nemmeno delle parole di circostanza.
Fu scambiata per timidezza, emozione, Dio sa quale altro buon sentimento, ma forse era davvero indifferenza; come se questo premio della vita fosse giunto talmente in ritardo rispetto alle aspettative da non essere più importante.
Mi venne soltanto di indicare il libro sullo scaffale e riuscii a dire: “se a qualcuno interessa è lì, lo può leggere”.
Fui premiato con un fiacco applauso, ovviamente.
Da quel giorno di novembre ho deciso di scrivermi sempre i miei interventi. E ce ne sono stati… a Padova, a Mestre, a Milano, a Gallipoli, e ora qui a Roma.
Da quell’agosto 2007 è iniziata la collaborazione con Akkuaria, che mi ha visto partecipare a progetti, collaborare con la redazione nella scelta dei testi da pubblicare, a volte presentare una manifestazione.
Akkuaria mi ha fatto incontrare belle persone: Franco Zarpellon col quale ho presentato il libro di un’altra autrice di Akkuaria; Sergio Belfiore autore di un bellissimo racconto intitolato Samuel, che avrei voluto veder vincere a un concorso letterario della cui giuria facevo parte. Mi ha fatto conoscere a Milano Vittorio Frau, autore di buoni racconti; Sergio de Angeli, poeta al quale è piaciuto farmi leggere qualche sua poesia in pubblico.
Mi ha fatto visionare testi da pubblicare come quello di Marco Gradella: un buon lavoro irriverente e sagace. Altri racconti belli e meno belli, alcuni tanto brutti da ricordarli soltanto per la loro bruttezza.
Sono entrato in contatto col dolore di talune confessioni messe per iscritto, che non sono diventate libri pubblicati e forse non lo diverranno mai. Ho letto lo scritto di un presuntuoso soggetto che proponeva una “cosa”, non meglio definibile. Ho letto storie, idee, proposte, pezzi in grado di toccare il cuore per la loro finezza, e pezzi grossolanamente scritti ma buoni; pezzi scritti bene ma noiosi e pedanti, dai toni saccenti.
Tutte opere di una umanità che scrive, e vuole farlo, e si impegna al meglio delle proprie possibilità. Persone che vogliono dire qualcosa e ci mettono passione. Che credono di avere qualcosa da dire, e lo fanno nella forma che meglio preferiscono esprimendo così la loro personalità.
È difficile giudicare sulla base di un lavoro. A volte ci si gioca tutto su uno scritto e se non fa buona impressione allora davvero ci si è giocata una opportunità. Capita di giudicare male. A volte, leggendo racconti non entrati in concorso per il premio Pasqualino, mi sono stizzito, ho pensato che scrivere è un’arte alla quale non tutti possono accedere, checché credano.
Ora dico questo: scrivere, dipingere, più genericamente creare, sono attività del cuore che si mette a servizio dell’intelletto. Raramente sono atti superficiali, sicuramente sono attinenti all’individuo più che alla persona; nascono da una molla interiore che fa agire, contro tutte le azioni quotidiane nelle quali spesso si è agiti.
Molte sono le delusioni, ma comunque ogni azione di questo tipo è buona, saggia, sapiente; deve essere portata a termine. In questa modalità è fine a se stessa; non deve aspettarsi premi se non uno soltanto: la quieta soddisfazione di averlo fatto, senza altre aspettative di successo.
Akkuaria in questo aspetto premia l’autore.
Da 10 anni lo fa e ci si augura che Vera non si stanchi mai di farlo. A Milano, nel 2010 – in occasione del decennale dell’Associazione – Vera ha ricevuto un pubblico riconoscimento da parte di Pinketts per il suo lavoro.
Non è raro che i piccoli editori abbiano fra le loro pubblicazioni opere ritenute non commercialmente valide, però di tutto rispetto. Non è raro che opere di onesta cultura si possano leggere soltanto perché edite da piccoli editori.
Per come conosco Vera, l’avverbio “commercialmente” pochissimo si adatta al suo lavoro di editrice, anche se non può del tutto ignorarlo.
È una buona cosa che lei e altri come lei si impegnino in questa attività.
Erberto Accinni