Corti di carta il libro di Miette Mineo

Posted by on Dec 20th, 2013 and filed under Akkuaria, News. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. Both comments and pings are currently closed.

 Miette Mineo è al suo terzo libro (oltre agli articoli che pubblica su varie riviste, quali “Incontri” – “Il Piccolo letterario di Catania”, ecc.), è quindi una scrittrice consolidata e non per il numero delle pubblicazioni ma per la qualità delle stesse, e desidero ricordare i due precedenti lavori: La bambola graffiata, dieci storie sui diritti violati dei minori, soprattutto delle bambine che sono tra i deboli la parte più debole, con approfondimenti sulle varie tipologie delle violenze, frutto anche della sua esperienza con Amnesty International: mutilazioni sessuali, bambini soldato, sfruttamento minorile nel lavoro, ed in genere sulle condizioni disumane in cui vengono tenute in certi Paesi ed in certe religioni le bambine. Edizioni Prampolini del 2009; un libro forte, attuale nel 2009 e purtroppo ancora attuale nel 2013. L’altra opera è un bellissimo romanzo storico La lava e la polvere, Edizioni Prampolini 2011, nel quale l’autrice incentra e svolge una storia fantastica calandola nella realtà storica catanese tra l’eruzione dell’Etna del 1669 e l’ “horribilis terremotus” del 1693.

Non posso soffermarmi su questi libri perché è sul terzo che sta sera dobbiamo conversare, ma per dare un’idea del loro spessore ricordo chi ne ha curato le prefazioni: del primo Claudio Fava, del secondo la storica della nostra Università degli Studi Lina Scalisi,

   Questa terza fatica è Corti di Carta, edizioni Akkuaria, con introduzione di Mario Bruno, giornalista.

    Ciascuno di noi giudica un libro dal punto di vista formale e da quello sostanziale, del contenuto, secondo la propria cultura e sensibilità.

   Comincerei dalla scrittura. Forse perché mi piace scrivere, forse perché ho avuto grandi Maestri di letteratura italiana in tutto il mio corso di studi, forse perché mio padre, più degli stessi insegnanti, nel correggermi i temi mi faceva porre molta attenzione alla forma, allo stile, al linguaggio, sta di fatto che quando leggo un libro impiego il doppio del tempo di altri perché mi soffermo molto sul modo in cui è scritto. Perché è con la parola, con l’espressione verbale che l’autore entra in rapporto con il lettore e quindi è la forma della comunicazione che veicola l’interesse del lettore. Ho una vera e propria fissa per il linguaggio. Per esempio: noto sempre con stizza che nel 90% dei casi l’aggettivo “inerente” è usato in modo scorretto, perché è usato transitivamente “inerente il”, invece è “inerente a”. Fateci caso. Ancora, non so se alcuni di voi hanno notato che in questo effluvio di novelli scrittori, di esordienti, molti, per impressionare, per mostrare di essere bravi nello scrivere, ricorrono a parole pretenziose per il contesto in cui sono usate, creano paragoni improbabili, costrutti complicati, parallelismi, metafore eccessive, che finiscono per essere stucchevoli, fuor di luogo. Il ductus della Mineo è scorrevole ma espressivo, colto e mai banale. Il vero grande scrittore è quello che usa un’apparente semplicità, che esprime un mondo con due parole, ma sono quelle perfette, con paragoni presi dalla quotidianità, ma che sono proprio quelli azzeccati. La nostra lingua è una delle più belle e più ricche. Basta conoscerla. Penso a Manzoni, quindi uno scrittore dell’Ottocento, non parlo di Verga e dell’asciutto verismo verghiano. Ricordate che della Monaca di Monza a proposito della brutta storia con Egidio, Manzoni scrive: “La sventurata rispose”. Sono tre parole di uso più che quotidiano ma è una di quelle battute incisive ed allusive a un tempo che creano un’impressione definitiva in un alone di suggestivo mistero. Qui Manzoni dice e non dice ma esprime sintetizzandoli in un aggettivo (sventurata) la pietà e l’orrore: tre parole che un altro avrebbe allungato in una pagina intera o più.  Questa mia divagazione serve a fare capire quanto io sia attenta alla scrittura e quindi quando do un giudizio su quella di Miette sono credibile.  Prendiamo A occhi aperti. È la storia di un matrimonio finito male, che si capisce dalla prima pagina, quando l’amico del protagonista gli dice “Non ti bastano i soldi per gli alimenti” ma come erano andate le cose tra i due l’autrice lo sintetizza chiaramente in poche battute, facendo capire che lui, per amore, per passione, per capriccio,  voleva fortemente la donna, la quale non era stata mai molto convinta del passo e infatti si arguisce che è stata lei a volere la separazione.

Così come la descrizione con parole semplici ma che pittano il protagonista di La Villa sul lago: è come se lo avessimo davanti, guardate che a volte alla fine di un racconto o di un romanzo io non so immaginarmi come sono i protagonisti e questo non  va bene. A proposito di Lorenzo, il protagonista di cui stiamo parlando, vorrei riportarvi un’altra espressione che mi è piaciuta molto per la sua freschezza e la sua modernità, ma semplice ed espressiva. L’Autrice ha descritto il personaggio come socievole, ospitale ma non troppo e alla fine così sintetizza questo carattere: “Un misto di sicilianità condita in salsa lombarda.” Vedi, Mario Bruno ti ha accostato a Steinbeck, io addirittura a Manzoni.

   Ora entriamo nel vivo dei racconti.

   Corti di carta sono racconti brevi, a volte brevissimi, che potrebbero essere sceneggiati per l’intreccio, per quel filo conduttore che Bruno definisce tra l’onirico e il noir, a cui io aggiungerei surreale. Ecco, in questa ottica, in questo significato  le short stories di Miette si leggono con molta partecipazione e curiosità.

Partecipazione. Perché raccontano vicende umane, le più varie che riflettono la realtà contemporanea, fatti di cronaca. Da ciò la loro modernità, ma anche la loro atemporalità per quell’indagare nei sentimenti e nell’essere dell’Uomo. E per questo ci si ritrova ora in questo ora in quel personaggio, e se non proprio nelle situazioni certamente negli stati d’animo. Da qui l’empatia con gli attori e con il racconto.

Anche perché le descrizioni, le analisi dell’Autrice sono a tutto tondo, nel senso che descrive ora il punto di vista e l’atteggiamento della donna ora quelli dell’uomo. Già avete avuto un esempio con la lettura che Mavì  Bevilacqua ha fatto di 4 EMAIL 4 SMS . In questo corto la Mineo ha saputo cogliere la posizione di entrambi nelle luci e nelle ombre del tradimento e della tradita.

In Emma conta e in Una tazza di caffè  Mietta rappresenta  situazioni usuali in cui, per motivi differenti, la vittima è la donna e quindi si potrebbe pensare, essendo questi due racconti i primi del libro, che anche quelli che seguono siano condotti sulla stessa falsariga, ed invece non è così perché  Miette si colloca da tutti i punti di vista possibili. Quindi un po’ una botta al maschilismo (Sono tornata), ma una botta ad atteggiamenti femminili discutibili (Le  fil rouge. Piccoli crimini domestici).

    Ho detto prima che le storie di Miette si leggono con partecipazione, ed ho cercato di spiegarne il perché, e si leggono anche con curiosità. Alcuni racconti hanno un finale vago, restano aperti, la conclusione della vicenda resta sospesa, lasciata all’immaginazione del lettore. Per es. Emma conta : perché l’uomo non è venuto? Come si sviluppa l’incontro di Matilde nel racconto omonimo?  La ragazza del mare: si rivedranno? Lei gli potrà dare il ritratto? Perché lui non è andato a salutarla?  Accanto al fiume: chi era l’uomo? qual’era stata la sua vita? Ciò mi ricorda un concorso per studenti che si basava su un racconto dello scrittore di Mineo ma vissuto in Ciociaria Giuseppe Bonaviri, che lasciava la storia senza finale e i ragazzi la dovevano completare.  Questa caratteristica potrebbe essere proprio il quid  per la trasposizione cinematografica lasciata al regista che potrebbe suggerire la conclusione con le espressioni del volto degli attori o altre inquadrature.

     Non posso dire quale dei racconti mi sia piaciuto di più, ma uno che mi ha molto toccato è stato Memorie allo specchio, perché la morte scenica e la morte reale della protagonista mi hanno   ricordato la mia carissima amica e grande attrice catanese Mariella Lo Giudice. Affetta da anni dal tumore, volle recitare fino all’ultimo, morì il 1° di agosto e fino a fine luglio recitò a Genova ed a Torino. Mi diceva “Non aspetto la morte in un divano, morirò sulla scena, così vi darò un ultimo colpo di scena.” Mi perdonerete questo ricordo ma vi prego di considerarlo non solo come mio ricordo personale ma come omaggio ad una grande catanese.

    Prima di concludere con la lettura di un pezzo che ho trovato particolarmente originale  Le parole delle canzoni, vorrei dare la parola all’autrice che parli lei della sua ispirazione letteraria, e vi dico che mi sono sorpresa perché uno scrittore esordiente generalmente comincia, per chi vi parla è stato così, con uno scritto autobiografico, o palesemente tale o comunque uno scritto in cui riversa il suo mondo. Per Miette non è stato così. Perché se certamente negli scritti vi è qualcosa di lei ma per la varietà dei temi trattati nei suoi vari lavori e per quella complessità e globalità e varietà di racconti, Miette si allontana da questa “consuetudine”.

Cristina Grasso

 

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