Si può parlare, nella Catania decadente del XXI secolo, del Poeta settecentesco in lingua siciliana Domenico Tempio, in un luogo antiaccademico per eccellenza, come un panificio-bistrot? Sì, se l’aere è quella della nouvelle vague francese degli anni ’50 del XX secolo, e si cita il Miller di Tropico del Cancro e Ungaretti, se si spazia nella temperie culturale europea del tempo dei Lumi, senza cadere nel paludatismo; se anche si recitano le liriche erotiche per cui il sulfureo Tempio è notissimo, e contemporaneamente, con la guida del volume “Domenico Tempio cantore della Libertà” , si interpreta il Poeta nel suo aspetto di fustigatore dei vizi e dei costumi dei governanti di ieri e di oggi, e si tiene sempre presente che egli fu lirico illuminista.
Tal congerie di varie note si può addebitare solo a una donna che della lava dell’Etna è figlia e creatrice infaticabile di codesti eventi, piccoli ma ciclopici per l’essersi dipanati in oltre tre ore di letture, dissertazioni dotte, dibattiti, colloqui liberi, con degustazioni di pizza, pane condito e bruschetta offerti dal mastro panettiere e padrone di casa Mignemi: è Vera Ambra, anima e artefice dell’associazione Akkuaria, che sola sulla faccia della terra continentale di Sicilia, può fregiarsi di questi santi laici peccati.
E se è la pietra che si fa carne, come si commentava dopo le 23 ancora sui versi tempiani, nelle architetture settecentesche che hanno di osceno solo per chi vuol vedere il peccato nel gonfio barocchismo gioioso di una città che fu di preti e suore e ora è di laici ignoranti, tra l’attento e coinvolto uditorio non a caso vi fu anche un sacerdote, che segnò con la sua presenza anche la democraticità della Chiesa verso un Poeta che comunque in un tempio della cattolicità fu sepolto, nel 1821 anno di sua morte. Nel trascorrere dei versi, il pittore Salvatore Barbagallo, verticalista, dava adito alla sua vena artistica, tracciando opere su carta.
Vera Ambra inaugurò così la nuova stagione di appuntamenti letterari in Catania nell’accogliente locale, con atmosfere alla Cocteau e nel segno di quegli intellettuali dolci, stile Prevèrt, la cui luminosa Patria d’oltralpe i nostri catanesi del XVIII secolo, Tempio e gli amici suoi Ignazio principe di Biscari e il Vescovo Ventimiglia dei Belmonte, amavano precipuamente tanto da studiarne con accanimento i libri. La rivoluzione era alle porte, anche se lambì non la politica della Sicilia infeudata ai felloni di casa Borbone, ma le menti e i cuori di quei governanti, che furono negli anni tempiani, il Caracciolo e il Caramanico.
Che poi si sia passati, nella serata del 13 novembre 2013, con ingresso da largo Bordighiera 13 (ed il 13 segno di Morte che si tramuta in Immortalità, è pura sincronicità junghiana voluta dal Tempio medesimo…), dalla dissertazione dello studioso Francesco Giordano, autore del saggio critico di cui sopra sulla vita e l’interpretazione delle opere tempiane, alla lettura delle poesie politiche “La Libirtà” e la “Libraria”, a quelle piccanti de “L’imprudenza o lu Mastru Staci” e “A Clori” , fu inevitabile e anche amabilmente permesso: come si convenne che il dicitore Orazio Costorella recitasse la caleberrima “Monica dispirata”, di cui si analizzarono anche le scaturigini storico-filologiche.
Volle lo scrittore Pippo Nasca dare una sua interpretazione narrativa del vissuto tempiano, e la serata si concluse così, con la consapevolezza nell’uditorio di aver conosciuto, o meglio ri-conosciuto, un grande figlio di Catania, della Sicilia e dell’Europa libera d’ogni tempo, il quale visse in un’epoca di grandi sconvolgimenti ma non si espose se non quel tanto che permetteva la Musa parnasia: cioè, in modo d’aquila.
La “Donna di misteriu” di Tempio, la Natura di “lu gran Tuttu”, può dirsi appagata, perché in un clima appropriato e fuori da ogni ufficialità, si parlò della Poesia, povera nuda ma quanto splendente nella sua Libertà.
Francesco Giordano