Quando ero bambino non amavo molto studiare. Lo trovavo faticoso e non ne vedevo lo scopo. Mi piaceva la storia, perché sembrava un romanzo con tanti personaggi. Mi piaceva l’aritmetica perché era facile: poche regole da rispettare e il gioco era fatto. Le frazioni erano chiarissime: ½ è più di 1/3: mezza torta è meglio di un terzo; più cresce il denominatore, più aumentano le fregature.
Delle altre materie ricordo poco; papà una mattina mi fece alzare alle sei per studiare geografia: non sapevo dov’era il golfo di Squillace. In italiano me la cavicchiavo perché avevo memoria e ricordavo bene le poesie, ma i temi erano un disastro: “poveri di idee”.
Il giudizio unanime dei vari maestri era monotono e lapidario: “È intelligente ma svogliato” (parola oramai sparita dal vocabolario corrente). Così genitori, zii, parenti più o meno titolati a dire la loro (ma mai mia nonna), avevano un unico rimprovero: “Ma non hai senso di responsabilità?”
A volte la frase era più articolata: “Non ti vergogni? non hai un po’ di amor proprio? di responsabilità?”
Seguiva poi un elenco di vantaggi che derivano dallo studiare, dal dimostrare che si vuole crescere, dal sentirsi con la coscienza a posto, in una frase: dal guadagnarsi il pane con dignità.
Forse, sentendolo ripetere in continuazione, col tempo qualcosa mi è venuto. Ho imparato che avere una parola e rispettarla ti rende affidabile, che ragionare prima di agire ti rende apprezzabile, che non imbrogliare ti porta rispetto.
Non sono un cittadino modello: a volte ancora sgarro e una voce dentro me lo dice, così so che lo sto facendo e che questo ha delle implicazioni. Avendo paura di infrangere la legge, non sono mai cose grosse: qualche volta passo col giallo, dico parolacce invece di pensarle, guardo le chiappe delle starlette di turno che il Corriere della Sera propone in internet (il Corriere, essendo il primo giornale d’Italia, non è un quotidiano serio? Eppure dedica spazio al gossip, permettendo così alle belle curvilinee di essere visibili e appariscenti; le definisce VIP, riconoscimento una volta riservato a persone importanti dalla cintola in su).
C’è sicuramente altro, che risolvo con un’alzata di spalle senza troppi scrupoli, però essendo stato un dipendente tutta la vita non ho mai evaso le tasse, prelevate alla fonte (ed è un ingiustizia: o le pagano tutti o tutti devono avere la possibilità di evadere. Non serve rammentarmelo, lo riconosco da me: è una considerazione di becero qualunquismo, ma una volta ho scordato di dichiarare 2.000 lire di dividendi e ho pagato la mia multa di 150.000).
Non sono un cittadino modello; spesso ho il sospetto che essendo inculcata in me la paura delle conseguenze, non faccio di peggio soltanto per non incappare in situazioni sgradevoli; questo non mi fa migliore, casomai un sepolcro imbiancato; ma nella posizione di poter fare il moralista, quello che giudica il comportamento degli altri e lo addita con cattolica puntualità.
Stamattina alle otto, alla radio c’era una discussione a proposito dello sciopero dei benzinai dal 3 al 5 agosto.
Ascoltavo, leggendo l’articolo sul compenso attribuito al direttore della RAI: 650.000 euro più una carica a tempo indeterminato (non dico i commenti nel blog, sull’Italia a rotoli mentre loro…). Ed ecco che l’invocazione giunge dalla radio, da parte di non so chi dell’Associazione dei Consumatori: un appello al senso di responsabilità.
L’esortazione mi è rimbalzata dentro; sento sempre più spesso la classe politica invocare il senso di responsabilità contro il malcostume dilagante degli avversari, ma soltanto stamattina mi è venuto di considerare che a me lo dicevano da piccolo, e che da anni a nessuno me l’ha più chiesto, perché è una raccomandazione/richiamo che va dall’alto (adulti) verso il basso (bambini/adolescenti, senza troppe scuse per l’età).
E allora mi è venuto il dubbio: ma questa gente ha avuto la mamma? E se l’hanno avuta, che cosa ha loro insegnato?
Se si è avuta la mamma, non è necessario che ora l’invito vada orizzontalmente da adulto ad adulto. Avendo correttamente sostituita la figura genitoriale con una regolare evoluzione verso l’adultità, la disapprovazione subita da piccoli ora è stata assimilata e fatta propria, consentendo a ciascuno di riconoscere il proprio comportamento quando è reprensibile.
Questo mi ha fatto considerare persone che conosco, ho conosciuto, che ho incontrato casualmente, tutte con la stessa lamentela contro il disordine dilagante e istituzionalizzato.
Non sono poche, e sono persone rispettose, educate, civili; sono paurosi come me o hanno dentro il senso di responsabilità e rispetto? Comunque sia, hanno avuto o hanno una mamma.
Essere libero è bello, ma la libertà non è una cosa per tutti. Ogni libertà sa di avere dei confini, che scattano ogni volta che qualcuno è leso. Credo che sia capitato a molti: la vera libertà procura una gioia consapevole, la coscienza di essere col proprio sé; non soddisfa l’orgoglio, la presunzione, la smodata esibizione del proprio stato, della bravura, del denaro, dell’ego, insomma: tutte cose legate al permissivismo, all’immoralità; e anche all’amoralità, perché no, se non si è avuta la mamma.
Tutti abbiamo provato la gioia che viene dall’aver fatto bene una cosa, non per l’approvazione ma perché è silenziosamente buona per noi.
Non tutti? Qualcuno non sa cosa sia?
Allora mi torna il dubbio; ma questi ultimi… hanno avuto la mamma?
Non auspico il censimento dei trovatelli, il senso della pietà suggerisce di soprassedere a sondaggi inutili. La scoperta di essere mischiati a tanti poveri infelici, provocherebbe un colpevole imbarazzo a chi ha avuto la mamma.
E poi non scordiamo gli equivoci e chi non realizza subito e si offende; anni fa il parroco di Cuasso, durante la processione, fece un cenno alle bimbe vestite di bianco, e pomposamente disse: “Avanti le vergini!”.
Nessuna delle piccole si mosse. Fra l’imbarazzo e le risatine maliziose, scosse la testa e rettificò: “Dai, dai, venite avanti come siete…” (tradotto liberamente dal dialetto lombardo).
Se avessimo tutti la mamma, come si farebbe a scrivere di quelli in dubbio? Sono proprio loro che ci ricordano l’esistenza del bene e del male, la necessità della dualità per avere sempre i termini di confronto. Come sarebbe noiosa la vita: sempre fra noi “buoni”, a raccontarcela soave.
Erberto Accinni