La lettura dell’opera prima di Valeria Battiato, giovane poetessa esordiente, è una di quelle rare esperienze di sinestesia in cui la pellicola delle percezioni più sconvolgenti varca il simbolismo convenzionale delle parole e si fa corpo, anzi, più precisamente “anca di pollice: “Nell’anca del pollice sinistro. Splatter felice in poetry di una blogger” (Edizioni Akkuaria), è infatti il titolo della sua prima raccolta di versi.
Per comprendere la portata estetica di questo genere letterario che l’Autrice stessa individua con il termine “Splatter”, dovremmo innanzitutto coniugarne una definizione. “Splatter” o “splatterismo” è una corrente letteraria e cinematografica americana che rappresenta il gusto violento, sanguinario, raccapricciante di immagini in cui predomina lo schizzare del sangue (“To splat”, in inglese) tipiche di un certo genere horror. Il termine “Splatter” è stato usato per la prima volta dal regista George Romero, che lo coniò per definire il carattere del suo film Zombi.
Trasposto in una forma poetica, lo “Splatter”, come ce lo propone il verso della Battiato, è la sequenza informale di ritmi-percezioni-immagini, oscure, strazianti, violente; il vissuto di una realtà quotidiana votata al “cupio dissolvi”, capace di iniettare questa “dissoluzione dell’essere” in tutti noi come un veleno, una tortura, un taglio, una passione silente, nascosta, ma perciò stessa più feroce, aberrante, sanguinaria.
E così si svolgono le immagini-sensazioni di un mondo senza pace in un’eterna quaresima dei deboli in cui la punta dell’iceberg è l’abbandono e la mortificazione dell’infanzia, come nella poesia IL TRIDUO GIOVEDI-VENERDI-SABATO
“N.M.M. non conoscono Quaresima, non conoscono
Dio. Fumano da 7 anni, ne hanno 14. Hanno il
piercing in bocca, ne hanno 14. Vanno in prima
media, ne hanno 14.”
Scivolano le lame del bisogno e dello sfruttamento dei giovani nel mondo del lavoro, precari figli di altrettanti precari, povertà perenni, vittime di un sistema che non riconosce il merito dell’essere, ma il condono dell’apparire. Eccola la precarietà come condanna, come svuotamento, come insolvibilità dell’io, in “PASQUALINA A SANSENZASOLDI”:
“I calessi passano come i momenti falliti. Penso alla
precaria linea del riaggancio LAPENSOALL’ANTICA.
Precaria mia madre, precari tutti, stiamo con la
verdura bollita. Stiamo lontani dal pesce a 20$$$,
lontani dalle scarpe nuove a 440$$$$.
Ancora una volta appoggiamo i gomiti sul tavolo,
rassegnati. Ancora una volta mi guardo il polso
destro: la solitudine e lo svuotamento.”
E di fronte ad una realtà cieca di fronte alle sofferenze dell’io, la poesia diventa soccorso ma senza mediazione, privo di anestesia, lontano da panacee consolatorie.
L’urlo di dolore che infrange le illusioni, racchiuso in un urlo ancora più universale e straziante che sgorga dalle viscere dell’io, non come ribellione ma semmai come eterogenesi dei fini. La poesia Splatter è urgenza, è la conseguenza di una realtà in cui gli individui perseguono la felicità ma in questo affanno in verità la perdono, e in cui sfugge il grido di una creatura, la quale ha il coraggio di profferire se stessa in quanto “non esistente”, eppure perciò stesso in diritto di dichiarare una sua qualche esistenza, come avviene nel più noto dipinto di Munch.
“Mi vergogno della notte e coi ginocchi nudi.
Interiorità avvilita dalla tachicardia, dall’assenza di
aiuto. Mi vergogno della notte e coi ginocchi nudi. Il
gregge dell’immaginario mi lascia in modo da
attingere alle giuste lezioni di etica delle promozioni
sim: SUPER NOI TUTTI.
Noi tutti che mangiamo gli schiaffi morali e l’oblio
della pena. Sottostare e nello stesso tempo
realizzarsi dentro il quadrato sociale.
Gli errori diventano alternativi, indie. Sono indie e
…mezza ammaccata prendo il demiurgo delle
stampelle alla gola. Estendo anonima i Desire con
Don’t call.
Io DE.URGO alla gola.”
Poetessa-blogger di un’urgenza a chiamare la sofferenza in proprio e in toto. Questo il profilo immaginario dell’io poetico. Un io che è identità di un’isola e di una nazione. La sofferenza della Sicilia, stuprata da chi ne propone la salvezza, violentata nel suo lato artistico e nel suo cuore umano e sociale, da un virus immondo, una trivellatrice di anime, che è l’immoralità dell’individualismo, la formula trash del perbenismo, la cifra incolta delle assurde apparenze.
La poesia trasforma il potere creatore, di un demiurgo classico, un tempo stabile sulle punte dei piedi, sulle metriche rotonde e istituzionali, nell’oggi traballante, in un misero potere dell’urgere, dello schiaffo ricevuto e che subito si dà, in uno strano effetto domino dell’alienazione che ha comunque l’esito positivo di un ritorno salvifico della lingua.
La lingua infatti si frange nel destino di un linguaggio modello social-network, o googliano, massimizzante di sentimenti e opinioni, in perenne ricerca di un quid che non perviene dalla massa delle informazioni. La lingua è il filtro che trattiene lo Splatter per liberare il senso puro dell’essere. Lo Splatter è quindi una poetica emorragica ma epurativa, capace di rendere possibile una stretta via d’uscita alla violenza. Ovvero la poesia stessa. Battiato propone una sintesi contemporanea del leopardiano verso dell’Infinito “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, traducendolo nel sottotitolo “Splatter felice in poetry”, in cui il “poetry” e il “mare” sono proprio l’infinito della lingua e dove il “naufragio”, ovvero la ricerca del linguaggio per esprimere l’infinito, si è mutato in schizzo di sangue, ma resta pur sempre “felice” come “dolce” era il perdersi di Leopardi.
V’è un’altra poetica alla quale accosterei lo stile di Valeria Battiato: quella della Lady Lazarus di Sylvia Plath. In qualche modo la Plath ha anticipato le forme estetizzanti dello “splatterismo” proprio in questa poesia in cui descrive una realtà in decomposizione che richiama alla decomposizione del reale tutto. Ma, a differenza della Plath, nei versi della Battiato vi è una fuga dell’essere oltre la soglia del finire corporeo, grazie all’ empatia con il soffrire degli altri, che li rende, pur sotto lo squallore livido del quotidiano, meritevoli di un urlo di denuncia attraverso la poesia.
Alfia Milazzo