“Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto”. In assoluto uno dei passi più celebri del terzo canto dell’Inferno dantesco. La celeberrima perifrasi viene attribuita a Ponzio Pilato, Esaù, Giuliano l’Apostata, Ottone III, ma per antonomasia l’espressione del Sommo Poeta, nei vv. 59-60, viene riferita a Papa Celestino V.
Dante colloca, infatti, Celestino nell’Antinferno, luogo dove risiedono gli ignavi «che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo», a metà tra la colpevolezza e l’assoluzione, sottratti all’Inferno dalla pietà e dalla misericordia ma ai quali è precluso il Paradiso secondo le norme della Giustizia.
Dante non menziona il Pontefice, ma allude facendone un emblema; del resto, apparirebbe impensabile che i suoi contemporanei non identificassero Celestino nell’allusione. Lo stesso Jacopo, figlio di Dante, parla di Celestino come colui che “per viltà di cuore, temendo d’altrui il grande uficio apostolico rifiutò di Roma”. La colpa che il Poeta attribuisce a Celestino è quella del “rifiuto”, o meglio rinuncia, del soglio pontificio: eletto a Perugia in un conclave composto da soli 11 porporati il 5 Luglio 1294, rassegnò le “dimissioni” il 13 Dicembre del medesimo anno.
Ma la “colpa” più grande dello sciagurato Pontefice, oltre al gesto in sé, è quella di aver favorito la venuta dei due “Anticristo” (come verranno definiti da Ubertino da Casale), Bonifacio VIII e Benedetto XI, che non si sarebbero fatti problemi a “torre a ‘nganno la bella donna, e poi di farne strazio”.
Questione di “viltade” o di coraggio il gesto del Pontefice? In merito si potrebbe disquisire a lungo, ma cosa certa è che il Papa eremita non volle prestarsi alle pressioni di Carlo D’Angiò, alla baratteria e alla simonia (tutte pratiche assai diffuse presso la corte papale).
D’altro canto, l’allusione a Celestino sembra in Dante un gesto spregiudicato, in quanto il poeta, venuto certamente a sapere della canonizzazione di questi sotto Clemente V, sarebbe potuto incorrere nell’eresia ponendo un santo nell’Inferno o tra gli ignavi. La viltà dantesca, concetto ricorrente nell’intera opera, può essere definita come contrario di nobilitas e magnanimità: insomma, la trasposizione più corretta potrebbe essere, quindi, pusillanimità.
Ma l’episodio della rinuncia, più o meno “volontaria”, non è da considerarsi un gesto singolare in quanto già compiuto da Martino I, Benedetto V, Giovanni XVIII, Benedetto IX, Gregorio VI, Pasquale II e Celestino III. Ciò che, però, “giustifica” la rinuncia di Celestino è l’umile ammissione di un’inadeguatezza al ruolo di Pontefice da parte di un uomo votato all’eremitaggio e non abituato al ruolo di “collante” diplomatico. I giuristi consideravano legittima la rinuncia nel caso di debilitazione fisica, delitto o scandalo, o per “zelum humiltatis ac melioris vitae” (desiderio di ritorno ad una vita contemplativa).
Proprio Bonifacio VIII, con la costituzione “Quoniam aliqui”, eliminò ogni “condicio sine qua non” e stabilì che ogni pontefice potesse liberamente rinunciare al papato senza il “permesso” di un Collegio Cardinalizio (norma introdotta nel Codice di Diritto Canonico nel 1917). La tradizione vuole che Celestino abbia lavorato alla rinuncia per otto giorni e otto notti, al termine dei quali: «Ego Caelestinus Papa Quintus motus ex legittimis causis, idest causa humilitatis, et melioris vitae, et coscientiae illesae, debilitate corporis, defectu scientiae, et malignitate Plebis, infirmitate personae, et ut praeteritae consolationis possim reparare quietem; sponte, ac libere cedo Papatui, et expresse renuncio loco, et Dignitati, oneri, et honori, et do plenam, et liberam ex nunc sacro caetui Cardinalium facultatem eligendi, et providendi duntaxat Canonice universali Ecclesiae de Pastore».
Celestino, al secolo Pietro Angelerio o del Morrone, proveniva da un’umile famiglia e penultimo di dodici figli. Dal 1231 eremita a Castel di Sangro, Porrara e Maiella, dove, ad oltre mille metri di altitudine, fondò l’eremo di S. Spirito. Nel 1263 la sua Congregazione venne incorporata nell’Ordine Benedettino da Urbano IV.
Nel 1292, alla morte di Niccolò IV, il conclave si prolungò per oltre un anno, interrotto dall’alternarsi delle sedi, dalla peste e dai disaccordi trai sostenitori degli Orsini e quelli dei Colonna. Ma quando, all’indomani dei Vespri siciliani, le trattative tra Carlo d’Angiò e Giacomo II d’Aragona si trovavano in fase di stallo a causa dell’assenza della garanzia del Papa, i porporati si resero conto di dover accelerrare le procedure di elezione (lo stesso Re di Napoli si recò a Perugia).
E così, il 5 Luglio 1294, il Sacro Collegio scelse come nuovo Pontefice l’eremita Pietro del Morrone, già in odore di santità, sebbene questo non fosse un porporato. L’asceta, pur non essendo entusiasta della notizia, accettò per obbedienza, raggiunse Aquila e qui, presso la basilica di Santa Maria di Collemaggio, fu incoronato Papa il 29 agosto 1294 con il nome di Celestino V. Avallò il trattato tra Carlo d’Angiò e Giacomo d’Aragona e stabilì che alla morte di questo la Sicilia sarebbe tornata in mano agli Angioini.
Ma Celestino, inoltre, trasferì la Sede Pontificia a Napoli e fu il primo Papa a non esercitare il proprio ministero di successore di Pietro nell’Urbe. Di fatto, il pontificato di Celestino subì la profonda influenza del Re di Napoli e potrebbe essere definito come una “cattività angioina”. Matura giustappunto il desiderio di rinuncia all’ufficio prepostogli, sostenuto proprio da un tale Benedetto Caetani: rinuncia che arriva in occasione del concistoro del 13 dicembre del medesimo anno. A undici giorni da questa data, un nuovo Conclave, riunitosi a Napoli, elesse al soglio pontificio il cardinal Caetani, che prese il nome di Bonifacio VIII. Ma il nuovo pontefice si oppose al volere del papa “emerito” di far ritorno all’eremo, e quando Pietro da Morrone (ormai di fatto tornato asceta) fuggiva di nascosto in Abruzzo, Bonifacio scatenò una vera caccia all’uomo. Mentre tentava di imbarcarsi per la Grecia, Pietro Angeleri venne catturato a Vieste nel giugno 1295: venne imprigionato nel castello di Fumone, ove, a 87 anni, lo colse la morte il 19 maggio 1296. Venne delusa, così, la speranza in un rinnovamento della Chiesa.
Il 5 maggio 1313, fu canonizzato come confessore da Clemente V, sebbene Filippo il Bello spingesse per la canonizzazione in qualità di martire. La tradizione attribuisce a Celestino due celebri episodi: il primo narra che Bonifacio si introducesse ogni notte nella camera di Celestino con una tromba in mano, come l’angelo dell’Apocalisse e annunciando pene infernali; il secondo narra, invece, che al momento della cattura Celestino abbia urlato a Bonifacio VIII «Entrasti (nel papato) da volpe, regnerai da leone, morirai da cane». Come abbiamo visto nel nostro excursus, la rinuncia di Celestino non avvenne affatto per viltade, sebbene Dante lo consideri un gesto riprovevole (come dargli torto, del resto, visto che proprio Bonifacio VIII, alleatosi con i guelfi neri di Corso Donati, farà esiliare il poeta? ndr).
Lo stesso Pio XII, teneva pronta all’uso nel cassetto una lettera di rinuncia nel caso in cui i nazisti lo arrestassero. Durante il concistoro dell’11 febbraio 2013, Benedetto XVI (265mo Papa della Chiesa cattolica, eletto il 19 aprile 2005), ha rinunciato al ministero petrino, con decorrenza della sede vacante dalle ore 20.00 del 28 dello stesso mese.
Marco Fallanca