C’era una volta: il papà

Posted by on Mar 6th, 2014 and filed under Cultura. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. Both comments and pings are currently closed.

I primi giorni di scuola si riempivano quaderni interi di aste e puntini. Imparato a leggere e scrivere si studiavano le poesie a memoria. Una da recitare a casa ai papà, che ogni tanto mi torna alla mente, in un certo punto diceva: “Pioggia, neve oppure vento, al lavoro va contento”.

Io lo guardavo e non sapevo dire se era contento. La retorica post-fascista degli anni ’50 imponeva di credere alla poesia e non farsi domande e in effetti, quando la recitai a casa, fu accolta con un gran sorriso e commento di approvazione, che però ho sempre attribuito alla buona memoria per recitarla senza intoppi, ma non al contenuto.

Mio padre era stato un militare di carriera, aveva fatto la guerra e nelle scuole della marina aveva imparato che esistono i doveri che senza troppa retorica vanno compiuti fino al sacrificio estremo.

In tempo di pace aveva dato le dimissioni dalla marina, lavorava in banca e si era fatto una famiglia, perché questo deve fare un uomo. Una volta creata la famiglia, le regole erano semplici. L’uomo lavora e la moglie pensa alla casa, ai figli e al marito.

In fondo, quando Dio cacciò dall’Eden i capostipiti, rifilò loro una punizione pesante: tu uomo mangerai il pane guadagnato col sudore della fronte e tu donna partorirai con dolore. In conseguenza non c’era niente da fare: pioggia o neve, al lavoro ci si doveva andare e questo era il suo ruolo; guardava fuori dalla finestra per sapere che scarpe mettere e se portare l’ombrello, ma non si lamentava.

In quanto a mia madre pare che davvero abbia partorito con dolore, lamentandosi per le sofferenze inflitte alla donna, senza mai pensare alla gioia della maternità e facendomi nascere con qualche ora di ritardo rispetto al ruolino di marcia previsto dalla levatrice.

Papà era fiero del figlio maschio. Mi regalava i fucili e le pistole, poi un cavallo a dondolo di cartapesta. Mi portava in giro la domenica, una passeggiata dopo la messa e prima di andare a prendere le pastarelle. Nel pomeriggio mi portava al cinema a vedere i film western e mi insegnò ad andare in bicicletta senza le ruote laterali (a prezzo di molte cadute, ginocchia sbucciate e pianti inevitabili). Per il resto della settimana quasi non lo vedevo. Non c’erano i computer e il lavoro si faceva a mano; gli straordinari costituivano una fetta decisamente consistente dello stipendio, tale da triplicarlo a volte.

Pensava economicamente alla sua famiglia e mia madre diceva di mettere tutta la sua attenzione ad accudire me, il che non mi impedì di infilare le dita nella presa di corrente che allora era 160 volt e non 220, come ora. Le regole di vita erano semplici, anche se quasi mai facili da rispettare: Dio, patria, famiglia.

Mia madre si spendeva tutto il suo stipendio, e per questo nascevano discussioni infinite e inutili, poiché tutti i mesi era così. Per quel che ne sapevo io allora, era la stessa solfa in tutte le famiglie che conoscevo: le discussioni erano infinite e inutili, tanto ognuno poi faceva come voleva, magari di nascosto e sperando di non essere pizzicato.

Non ho mai saputo se il suo era affetto vero o semplice orgoglio di avere un figlio. Gli piaceva ripetere che un padre mantiene cento figli ma cento figli non sanno a mantenere un padre. 

E già! Allora si diceva “ho un figlio”, e non: “sono padre”. Erano i tempi in cui il verbo avere equivaleva a essere: si era reduci da una guerra dove si era sofferto molto. Così non si era “sposati”, si “aveva famiglia”, ed era una giustificazione valida per qualunque situazione.

Era un uomo? Non saprei dire. Era autoritario, ma oggi dico non autorevole: sua moglie faceva molte cose di nascosto. Per carità, era una donna fedele, non pensate male, anche se io credo che fosse soltanto perché non le interessavano gli uomini, ma soltanto le frivolezze: armadio pieno di abiti, sempre portati a modello dalla sarta e il più delle volte indossati poco. Poi nell’intimità della casa era spesso con un grembiale attorno ai fianchi che irritava moltissimo mio padre.

Non credo che si siano mai interrogati sulla felicità. C’erano sempre delle buone ragioni per non parlarne.

Quando secondo lui arrivò l’età giusta, si interessò a me che ero sempre svogliato: doveva farmi diventare uomo, ed era sempre la stessa tiritera che possiamo riassumere in una corta frase: “compiere il proprio dovere, soprattutto se non ti piace”.

Poco incline alla fantasia, era convinto che un uomo debba accettare il proprio destino, anche se privo di soddisfazioni: la felicità non è su questa terra. Nel suo gergo marinaresco, affermava che un uomo deve sempre tenere ben saldo il timone della famiglia; il marito e non la moglie, volubile e scoordinata per definizione, incline alle debolezze e ad allevare il figlio ma non educarlo.

Oggi lo si descriverebbe come un personaggio grave, pesante; io allora lo etichettavo sul mio diario che lasciavo in bella vista sulla scrivania come: “ducetto formato famiglia”. Però gli volevo bene, anche se ha di molto ostacolato il mio processo verso l’adultità.

Ero nei miei anni dell’adolescenza, alle prese con un uomo rigido che non teneva in alcun conto la mia natura e mi voleva addestrare a sopravvivere in un mondo di lupi, perché questo gli aveva insegnato la vita. Le mie traduzioni in latino erano parecchio sgarrupate e lui si imbestialiva. In fondo non dovevo fare altro che studiare per il mio bene.

Non so se c’era amore in questo. Non mi voleva secondo le mie inclinazioni, mi voleva com’era lui.

Di mia madre ho poco da dire: per farmi fare quello che voleva, si metteva a piangere. Non so se le abbia mai voluto bene: per molti aspetti era più pesante di lui.

Le regole cattoliche imponevano amore e non mancare di rispetto ai genitori, e questo tentavo di fare; con scarso successo perché erano il mio punto di riferimento ma dovevo crescere e diventare adulto. Volevo “essere” anche se a volte era più facile “avere” una personalità preconfezionata.

Oggi mi hanno presentato un progetto che prende l’avvio dalla drammatica circostanza che ci sono trentaduemila bambini affidati a case famiglia e un numero tre volte tanto di bambini oggetto di liti fra genitori separandi.

Hanno cercato di coinvolgermi ma ho declinato l’invito. Si dovrebbero tenere in considerazione troppe sfaccettature e immaginando tante obiezioni da ridiscutere non me la sono sentita.

Negli anni 50 non ci si separava: si stava in casa e si litigava, e quando avevano finito fra loro, toccava ai figli che non facevano questo e quello. A volte i mariti menavano le mogli e si sfogavano. Avevano tante preoccupazioni…

Oggi non ci si può più menare: è violenza privata; si discute all’infinito.

Le discussioni – che sono sempre le stesse – rispecchiano il carattere della società moderna, dove l’uomo non è più un uomo avendo perso il suo ruolo, e la donna non è più donna avendo preso caratteristiche mascoline. Ma se qualcuno in questo ci vuole leggere che gli uomini devono menare le donne, è fuori strada.

Io sentivo discutere i miei; mio padre aveva la mania delle buste intestate: luce, gas, telefono, spese condominiali, spese per il menage, eccetera. Il giorno dello stipendio, mio padre deponeva tutta la somma sul tavolo trattenendo per sé pochi spiccioli per le sigarette e il giornale. Le buste dovevano essere riempite con il denaro necessario secondo le previsioni di spesa per il mese, e in una busta a latere veniva messo il resto che doveva servire per gli imprevisti. Dopo una ventina di giorni quelle buste erano vuote…

La ricostruzione delle spese portava sempre alla discussione con le stesse argomentazioni. Potrei ripetere le parole esatte ancora oggi, a tanto tempo di distanza, ma mi limiterò a riferire il passaggio centrale:

-           Uffa! Fallo tu che sei così bravo.

-           Eh no! E tu allora? Spendere sconsideratamente e basta? Questo è compito tuo. Far quadrare il bilancio familiare è compito della donna. Io li porto a casa, tu devi imparare a spenderli, e non buttarli dalla finestra!

Ometto il seguito, tanto lo potete immaginare. Indipendentemente da ogni previsione, mia madre si spendeva tutto, a cominciare dalla busta degli imprevisti.

(Crescendo, ho poi scoperto che non in tutte le famiglie era così. E le discussioni allora venivano perché nonostante le economie, i soldi non bastavano per i bisogni primari, che allora erano davvero primari).

Io li ascoltavo, e non era possibile non ascoltarli perché le voci salivano di tono. Ad ogni fine mese sapevo quale era la frase che sarebbe stata detta e la inevitabile risposta. E dentro di me mi chiedevo se fosse mai arrivato il giorno di prendere l’argomento diversamente, dicendo qualcosa di nuovo e rispondendo qualcos’altro.

Niente; era un teatrino che doveva essere rappresentato come da copione ogni mese. Ed è così che ho imparato il becero qualunquismo e le frasi fatte. E inoltre da allora ho sempre avuto un pessimo rapporto col denaro.

Oggi le coppie litigano e si dicono regolarmente le stesse cose in ogni discussione. E dopo le discussioni moderne i comportamenti sono sempre gli stessi: ci si separa, i figli stanno con la madre (e vorrei vedere!) e i padri ridotti a bussare a una porta che si apre quando la madre vuole (tanto ha alle sue spalle il giudice che le dà ragione). Le accuse?

-  Tu sei padre soltanto adesso che il giudice me li ha affidati. Adesso li vuoi vedere! Quando eri in casa non facevi mai niente. Tutto sulle mie spalle: l’ufficio, andarli a prendere a scuola, portarli in palestra, riprenderli, stare a casa quando si ammalano, le discussioni con i professori…

-  Io dovevo lavorare…

Si noti che nel dialogo precedente la frase più lunga era di mio padre e la più corta di mia madre. Nel dialogo qui sopra è il contrario. Questo ha un significato ben preciso; per usare il lessico militare: il timone non lo governa più l’uomo.

Oggi l’uomo non mette le regole, discute lagnosamente regolette raffazzonate e mal imparate dalla famiglia di origine e non le vede mai rispettate. Ha lasciato la via vecchia, che gli pareva non attinente alla società nuova che sognava, e non è più autoritario e men che mai autorevole.

Io credo che la società non esprima il suo peggio soltanto perché esiste la prigione. Tolta la paura della prigione, la società si esibisce nello sketch peggiore. Avete mai notato che la allocuzione più abusata è “mancanza di rispetto”? e avete considerato, con un pizzico di ironia, chi la usa di più? I prevaricatori!

La casa, intesa come famiglia, è una istituzione che non si è mai ammodernata e allora la si è demolita ma senza aver prima costruito un altro rifugio, cosicché siamo tutti all’addiaccio.

Come dicevo ho rifiutato l’invito a scrivere qualcosa sulla situazione dei poveri padri.

In fondo le ex-mogli moderne, poco avvezze a subire, hanno delle valide ragioni se arrivano alla decisione di sfasciare la famiglia; comunque ogni azione successiva dei due, che con amore si erano presi e avevano fatto i figli, ora si rivela per quello che è sempre stato: infatuazione forse, ma non amore.

E litigando per l’affidamento dei figli, esprimono tutto il loro vero essere: frustrati in cerca di vendetta, dove i figli sono utilissimi per colpire al meglio; grazie ai tribunali gli uomini hanno sempre la peggio, perché per definizione le donne sono sempre maltrattate e sesso debole che la società deve tutelare (anche aumentando le “quote rosa” nella pubblica amministrazione).

Internet, che da tanto tempo è la mia fonte del sapere, mi ha rivelato un sito reclamizzato più o meno così: “perché pagare quando ci sono mamme single che vogliono scopare?”.

Seguono poi alcun regole di comportamento per i maschi (il cui accesso – data l’affluenza – par essere limitato a poche aperture al mese), tra le quali una che liberamente riporto: “se vi capita di riconoscere qualcuna, non andate in giro a fare i cretini dicendo che è iscritta a questo sito.”. Questa avvertenza apre ad una serie di considerazioni sui maschi, che qui evito

Non so dire se sia un sito a pagamento (per gli uomini comunque, mai per le donne!), per ovvie ragioni ho seguito le istruzioni per iscriversi fino ad un certo punto.

 Che dire? Purtroppo la profezia Maja si è rivelata una bufala; se vogliamo andare avanti siamo quindi costretti a usare il cervello (che forse un giorno forse ci suggerirà di usare il cuore).

In attesa di un’altra catastrofica profezia possiamo però fare una considerazione: una sola. E vorrei che fosse soltanto un pensiero espresso a voce alta, non un consiglio.

Non possiamo – in questa società che rifiuta giustamente l’autoritarismo – dire agli altri quello che devono fare e che noi ci aspettiamo che facciano, come invece si faceva negli anni cinquanta del secolo scorso. Oggi, se si inciampa in un tombino mal messo, la colpa è dell’assessore stradale, non nostra che camminiamo col naso per aria (implica un discorso di consapevolezza che in questa sede tralascio).

Potremmo però fare una cosa: lavorare su noi stessi, vigilare sul nostro comportamento; fermarci ogni tanto a guardare cosa stiamo facendo. Potremmo per una volta lasciare il cellulare, e in piena discussione chiamarci fuori, guardarci e così VEDERE quanto siamo ridicoli.

Le frasi che diciamo sono sempre le stesse. Il teatrino offre sempre la stessa rappresentazione. Il canovaccio non cambia mai. In un mondo con pretese di originalità, noi siamo sempre più monotoni.

Mi hanno recentemente accusato di individualismo; di non essere una persona.

Tralascio dotte spiegazioni sui termini “individuo” e “persona/personaggio”, che nel teatro greco era il soggetto da portare in scena con l’aiuto di maschere; richiamo soltanto l’attenzione su questo fatto: l’individuo è “sé”, nella sua interezza. Per esprimersi ha a disposizione le sub-personalità, che gli permettono di vivere le sue passioni, i suoi stati d’animo e i suoi pensieri: odio, amore, coraggio, viltà, intraprendenza, meschinità, indifferenza, e via dicendo. Senza mai riflettere su questo noi ne usiamo alcune, ma mai tutte.

L’individuo può – quando è consapevole di essere nella sua interezza – usare la forma espressiva più appropriata alla circostanza, sempre sapendo che il suo centro esiste ed è autocoscienza.

I guai cominciano quando non sa di essere un individuo, e allora si vede per la sua caratteristica espressiva preminente: buono, collerico, irriflessivo, misurato, fesso…, che finisce per essere la sua etichetta nella società.

La buona notizia è che ognuno di noi può esprimersi in tutte le sub personalità: può essere un moderno Hitler o San Francesco. Può chiamarsi fuori dal ruolo abituale e assumerne un altro.

Può quindi lasciare i cliché ed esprimersi con consapevolezza, meglio se dettata dal cuore.

Può, in una parola, evitare di discutere e invece dialogare, adducendo nuove considerazioni; può tralasciare le solite frasi fatte che inevitabilmente vanno verso la lite. Può, chiunque può! lasciare il cliché e muovere verso altre oneste modalità.

E allora è possibile che diventi autorevole, che poi significa più semplicemente: ascoltato.

Una piccola avvertenza: se la natura l’ha fatto nascere maschio, è chiaro che deve fare l’uomo. Deve cominciare quindi a rispettare se stesso in questo ruolo. Butti le creme che lo ringiovaniscono e si mostri nella sua nudità. Porti sul viso la strada che ha fatto: errori e successi.

Mio padre in parte lo personificava, e gli riconosco un merito che io non ho nella stessa quantità: aveva coraggio. Sapeva abbattersi e rialzarsi. Non scappava davanti alle difficoltà, anche se spesso non sapeva come affrontarle e poteva soltanto opporre quello che aveva imparato facendo il militare: la forza.

Un uomo è forte, non ha bisogno di mostrarlo. Può così mostrare altre sub-personalità: mitezza, ragionevolezza, disponibilità, amore vero. Può tenere il timone, se sa essere un uomo capace di esprimersi in tutte le forme che la vita gli propone, anche se non è detto che riesca risolvere tutto, poiché questo dipende soltanto in parte da lui. Credo che questo voglia una donna.

Può essere padre e marito, giacché ha un cuore. Può chiedere.

Può fare e non scordarsi la sua dignità. Può svelare le sue aspirazioni. Può giocare ed essere felice.

Ricordate il passaggio della Genesi: “ si guardarono e videro che erano nudi e si vergognarono”; siamo in grado di capire la metafora?

Se sa di essere un individuo, può vivere per quel ruolo che la donna vorrebbe riconoscergli. La donna, per quello che so, è la cosa più vicina alla natura che riesca a immaginare, anche se sbanda e si accoppia col serpente: in quest’altra metafora vorrei che si cogliesse la rappresentazione del dubbio che si oppone alla “ratio”.

E anche la donna ha un ruolo, seppur oggi sia difficile parlarne, visto che difficilmente si riesce a capire quale sia: hanno inventato il parto indolore…

Così è chiaro perché non saprei cosa dire al progetto che vorrebbe aiutare i padri, questuanti alle porte delle ex-mogli. Se prima non imparano a essere uomini, non potranno essere padri e mariti.

Saranno sempre e soltanto dei bambinoni cresciuti; e per quanto sofferta, è comunque una situazione più comoda che affrontare il percorso di rinnovamento interiore, dove nessuno ti aiuta e sei solo alla base della scala dalla quale sei ruzzolato ammaccandoti non poco.

Se ci riusciranno, quelle vere donne che non hanno perso del tutto il buon senso avvertiranno il cambiamento e apriranno la porta, prima ancora di sentire i loro passi sulle scale; e i figli, grandi o piccoli potranno vedere qualcosa di nuovo, senza sentirsi più trattati come pacchi postali: spettatori di un dramma che li coinvolge in prima persona, senza alternative da imparare.

 Mah! Finora non mi è capitato di sentire che sia successa una cosa così. Non escludo che sia semplicemente ignoranza mia; in fondo non si riesce mai a sapere tutto.

 Erberto Accinni

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