“Rapide ed essenziali, a volte sarvaggigni, le poesie di Gabriella Rossitto si potrebbero definire brunziddàti, piccole pennellate di pensieri condensati. I suoi versi sono sintetici ed essenziali; espliciti i toni, immediate le immagini”. Così ha esordito Alfio Patti durante la presentazione del libro di Gabriella Rossitto “Russània” (Premio Martoglio 2010) che reca l’introduzione di Salvatore Di Marco e la prefazione dello stesso Patti.
Organizzata dal Centro Paternò Tedeschi di Catania, e coordinata da Santo Privitera, presidente del cenacolo, la presentazione si è tenuta presso il salone conferenza della biblioteca Livatino al castello di Laucatia a Catania mercoledì 13 febbraio.
“Gabriella Rossitto – scrive nell’introduzione il prof. Di Marco – è la voce più recente e interessante del neo-dialetto che ha rinnovato la poesia siciliana senza trascurare moduli e linguaggi della tradizione”. Di fatto, Gabriella Rossitto, è una voce nuova che in punta di piedi e con pudore si è inserita nel panorama poetico siciliano a pieno titolo.
Dopo l’introduzione di Santo Privitera, che ha sottolineato come sia importante la conoscenza del dialetto siciliano per le nuove generazioni e sulla cui questione fonetico-linguistica si è soffermato in un intervento il dott. Giuseppe Incarbone presente fra il pubblico, Alfio Patti ha tracciato il percorso poetico di Rossitto che nel libro è diviso in cinque parti.
La prima è Cardacìa, cioè ansietà, cardiopatia, malattia di cuore. Quindi diventa lamentosa, pigra, viene “aggredita” dalla lagnusìa e la cardacìa si trasforma in fastidio, premura esagerata, prurito d’amore. Poi cerca di fare pulizia nel proprio cuore, di fare spazio “S’accapàu. / Ju sugnu brava / sulu / a rimunnari / a fari largasìa / c’û sapi / quant’haiu / a chianciri / ppi tutta ’sta pulizia./” (Largasìa).
Parole che si susseguono per accumulare significati la cui verità, però, è altrove. Esse dicono il taciuto, e il poeta, rischiando la propria coscienza, diventa dicente, mentre gli altri si celano nel loro “non dire”.
È proprio questo dire e non dire su cui ha lavorato Rossitto e che le ha permesso di filtrare le sue poesie.
Dopo l’ansietà, la malattia di cuore; dopo la Cardacìa, appunto, arriva Vampuliàta, la sezione dell’ardore, pari ad una caldana, se dovessimo tradurre alla lettera il termine.
Anche qui l’ardore viene sedato quando l’amato è sfuggevole, quasi come il vento, elemento maschile inafferrabile. Quindi la terza sezione, Frastuornu.
Viene pervasa da quella voglia inquieta, da quella bramosìa che la disturba, che la frastorna, e affida alle parole il compito di esorcizzare la fatica d’amare.
Dopo la cardiopatia, la caldana, la bramosia, è la volta della febbre e della sezione Frevi, “quel moto sregolato del sangue accompagnato da calore e frequenza di polso”.
Non ha importanza se la febbre è malsana, meglio morire d’amore, dovesse essere anche un’erba cattiva:
“Stringimi forti / comu l’erbamala / levimi u ciatu / levimi a vita / tantu senza ri tia / nun campu cchiui / tantu senza ri tia / mancu m’agghiorna…/” (Erbamala).
“Può questo cammino poetico concludersi senza lasciare dei segni? – si chiede Patti – La nostra poetessa, la quale ha certamente un concetto baudelaireano della poesia e cioè che oltre al cuore ella ha soprattutto bisogno di cervello, non poteva chiudere che con Nzinchi, (segni, gesti), la sua ultima sezione”.
Con questa si conclude l’architettura del libro: “Ristau nt’â l’aria / tuttu ddu beni / ca nun n’ama dittu / tutti i paroli / e vasi e abbrazzi / e cosi ruci / fermi nt’â l’aria / nzinchi / di nuatri./” (Nzinchi).
La raccolta è pervasa di parole aperte e positive; molte si chiudono con la lettera “a” e per questo suonano più incisive: largasìa, accomora, vocanzicula, erbamala, lagnusìa, cardacìa, vampuliàta, nuddabbanna, russània.
Fra i più interessanti l’intervento della stessa autrice che ha spiegato il perché della sua scelta linguistica: “Ho iniziato anni fa a studiare la poesia siciliana, - ha detto la dott. Rossitto – soprattutto quella contemporanea, e ad affinare le mie conoscenze relative alla sintassi e soprattutto all’ortografia. In relazione a quest’ultima ho poi scelto quella che è un po’ la mia cifra. La voce della mia terra è quella del dialetto, ci sono radici profonde e avviluppate che nessuno può fingere di ignorare, a qualsiasi terra appartenga”.
Una scelta coraggiosa, per certi versi, anche se oggi vi è maggiore attenzione verso il dialetto come testimonia la legge regionale n. 9 del 31 maggio 2011.
“La poesia dialettale è di nicchia, – ha concluso la poetessa di Palagonia – non credo abbia un grande pubblico, ma direi piuttosto che la poesia in generale non annovera molti lettori. Probabilmente ha ragione chi sostiene che ci sono più scrittori che lettori, ma non si può scrivere senza leggere moltissimo, la lettura è comunque sangue e nutrimento della scrittura.
Il mio rapporto con la scrittura è totalizzante: a volte ho la sensazione di essere solo un tramite, un semplice strumento di trascrizione tra voci arcane sospese nell’aria e il foglio, con il suo più terrestre inchiostro: in realtà ciò che siamo si traduce in scrittura. Trasfiguriamo continuamente sogni ricordi desideri per farne parole e, con un po’ di fortuna, “parole belle”.
Vera Ambra